di Giuseppe Lupo *
Gli anni che Mario Vargas Llosa si porta addosso, nei capelli e sulle spalle, non sembrano aver scalfito l’antica convinzione che trapela dallo sguardo (ancora vispo e saettante) e che rimanda a un’idea molto ben definita di cosa significhi scrivere, in questi anni, per un uomo nato in Sudamerica e vissuto prevalentemente in Europa: verificare l’insufficienza del mondo, avvertire la prigione in cui ciascuno di noi si trova in obbedienza alla nostra natura di esseri irripetibili e cercare una strada, la più percorribile, per uscire da questa insufficienza provando a evadere dal confino (la parola che lo scrittore peruviano pronuncia è “confinamiento”) che è il sentirsi dentro una sola vita.
C’è un punto del ragionamento che Vargas Llosa antepone alle soglie del suo parlare e che dunque dobbiamo considerare il momento di partenza del suo discorso sulla letteratura e sui libri: non tanto la sterile contrapposizione tra vita reale e vita immaginata, piuttosto il dissidio che ogni uomo prova quando avverte che la sua vita è un’esperienza a cui non è concesso di riavvolgere il nastro e ricominciare daccapo (come nelle riprese di un film, come nelle prove di un pièce teatrale), ma di soccombere all’idea che ognuno di noi è incastrato in un solo destino e che, nonostante i numerosi mondi paralleli, non ci è concessa una prova d’appello.
Qui sta il dramma. Ma qui sta anche la soluzione offerta da quella macchina di sopravvivenza che è la letteratura, quando si distingue dal mondo reale e promette agli uomini almeno un’altra chance. Vargas Llosa difende la scrittura come fase aurorale della creazione - qualsiasi forma, anche la più lontana in apparenza dalle pagine di un libro - e come atto di estrema libertà, dove è consentito spaziare oltre le anguste mura del tempo.
In tutto questo c’è qualcosa di violentemente magico e irreale, addirittura di visionario, perché solo agli esseri umani è consentito questo miracolo, almeno fino a quando l’azione di narrare storie riesca a sopravvivere alla postmodernità che - sono sue parole - “ha distrutto il mito che gli studi umani umanizzano”.
Vargas Llosa pronuncia una sorta di credo nella letteratura e nelle sue espressioni più autentiche, nel suo potere di vittoria sui confini della vita a patto però che resti letteratura, cioè indagine di una coscienza, viaggio interiore, metafora dell’esistere, anziché piegarsi, come purtroppo egli ravvisa, alla spettacolarizzazione di se stessa, alla resa incondizionata nei confronti di quelle regole che il mercato editoriale impone e da cui non esiste via di fuga.
Il mondo è insufficiente: questo sottolinea Vargas Llosa. E dalla sua affermazione trapela qualcosa di coraggioso e di mai vinto, qualcosa che conserva il fuoco rubato da Prometeo agli dei e per cui gli dei desiderano vendicarsi: bisogna credere fino in fondo alla forza del linguaggio, alla sua natura combinatoria perché, se è vero che non c’è soluzione alla catena di azioni umane a cui diamo il nome di vita, è altrettanto vero che agli uomini sono donati pochi strumenti per cercare e trovare vie alternativa alla condizione di finitezza. Ogni parola finisce nell’atto in cui viene pronunciata, ma ogni parola, proprio perché pronunciata, ha il potere di restituire una parvenza di infinito a ciò che termina, come il fuoco, come l’anima, come le cose che durano, e di moltiplicarla nel tempo fino a farci dimenticare del loro concludersi.
* scrittore e docente di Letteratura moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, sede di Brescia e Milano