di Luciano Manicardi *
Le parole con cui papa Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo, ci invita a riflettere e riscoprire le opere di misericordia, sono un grido accorato in cui si riflette la sua sensibilità personale, il suo “senso dei poveri”, la sua empatia con i sofferenti e gli oppressi, il suo sdegno di fronte alle ingiustizie, sentimenti questi, e opzioni, maturati e affinati in decenni di servizio nel ministero presbiterale ed episcopale in Argentina.
Sono un grido anche estremamente autorevole perché nasce da un’esperienza, da un vissuto che – cosa piuttosto rara ai nostri tempi – è riuscito a divenire esperienza e può dunque essere raccontato e testimoniato. In questo papa l’autorità non si fonda sulla “posizione” ricoperta, non si esibisce in titoli magniloquenti, non si afferma con posture ieratiche, non si impone per lo sfarzo delle vesti e dei paramenti, non si mostra con linguaggio teologico raffinato e con esibizione di conoscenza, anzi, si nutre di semplicità umana, e si esprime in modo testimoniale e narrativo.
Con papa Francesco la modalità narrativa esce dagli spazi esegetici e teologici (per lo meno di quegli esegeti e di quei teologi attenti a questa dimensione) e diviene prassi, quotidianità di gesti e di parole, informa la stessa comunicazione magisteriale al suo livello più alto nella Chiesa cattolica, suscitando le reazioni sdegnate di chi lamenta la carente o assente teologia di papa Francesco.
Egli comunica con un moderno linguaggio parabolico in cui le storie della più ordinaria quotidianità, le osservazioni tratte dalla vita delle persone, le immagini forgiate dal vissuto, narrano l'agire misericordioso di Dio. Stupisce, in tutto questo, che tra i suoi tanti e raffinati esegeti non vi sia chi abbia ancora colto che l’autorità di cui egli è portatore e che viene percepita da credenti e da non-credenti, si fonda sull’esperienza. E che in questo egli compie un gesto di grande portata culturale.
Quell’incapacità di trasmettere esperienze denunciata già negli anni ’30 del secolo scorso da Walter Benjamin e ripresa con raffinatezza da Giorgio Agamben, quando ha parlato dell'espropriazione dell'esperienza a cui è stato sottoposto l'uomo moderno, sembra trovare in papa Francesco un elemento di smentita: egli fonda la sua autorità sull’esperienza, riesce cioè a fare del vissuto quotidiano qualcosa che è traducibile in esperienza e che trova nel racconto e nella narrazione la sua modalità propria di trasmissione. […]
Scriveva Agamben nel 1978: L’esperienza ha il suo necessario correlato non nella conoscenza, ma nell’autorità, cioè nella parola e nel racconto, e oggi nessuno sembra più disporre di autorità sufficiente a garantire un’esperienza e, se se ne dispone, non è nemmeno sfiorato dall’idea di allegare in un’esperienza il fondamento della propria autorità.
In papa Francesco invece ci è dato di vedere ciò che da tempo non si vedeva e che a tutt’oggi non si vede soprattutto nelle persone che hanno una responsabilità della cosa pubblica. Certamente, il fondamento dell’autorità di un vescovo di Roma non risiede unicamente nella propria esperienza e nella propria coerenza, ma è pur vero che le scelte e le azioni quotidiane, le parole e i gesti quotidiani di papa Francesco fanno emergere un’autorità non semplicemente di “ruolo”, ma che rimanda a un vissuto personale divenuto esperienza, un’esperienza che viene trasmessa per via di narrazione.
E questo – ripeto – colpisce perché è raro, o forse addirittura unico ai nostri giorni. E forse, la credibilità di papa Francesco risiede anche nel fatto che il grido di cui parlavamo nasce da radici molto profonde e antiche, nasce dal vangelo e dalla testimonianza di Gesù narrata nei vangeli, vangelo che si dimostra essere, in Francesco, un vissuto divenuto esperienza. Ecco allora che indicendo il Giubileo della Misericordia, papa Francesco rinvia al vangelo e lo fa rinviando a una tradizione antica e veneranda nella storia della spiritualità cristiana: la tradizione delle opere di misericordia. Nella speranza che essa possa suscitare vissuti che diventino esperienze e siano trasmessi con la parola, con il racconto, con la narrazione testimoniale. […]
La tradizione delle opere di misericordia parla di vestire e vestirsi, di mangiare e di dar da mangiare (dunque anche di far da mangiare, per qualcuno), di bere e di dar da bere, di senza casa da ospitare, di malati da curare e visitare, di morti da seppellire, di afflitti da consolare, di antipatici da sopportare, di offensori da perdonare, di ignoranti da istruire, di dubbiosi da consigliare. In tutto questo non è difficile riconoscere noi stessi e altri che intersecano la nostra vita quotidiana.
Non è difficile vedere le situazioni quotidiane della morte di un congiunto e del lavoro del lutto, della malattia cronica di un familiare e della fatica dell’assistenza e della vicinanza, del dramma vissuto da un carcerato e dai suoi familiari, della condizione penosa di tanti immigrati, dell’ardua convivenza quotidiana con una persona problematica o con un carattere diffi cile, con una persona pesante da sopportare…
Non è difficile cogliere che questa tradizione cerca di radicare il vangelo nella quotidianità, di farlo divenire esperienza quotidiana grazie all’incontro con il volto di un’altra persona nel bisogno. Da quell’esperienza può nascere una testimonianza e una narrazione, ovvero l’evangelizzazione.
* monaco della comunità ecumenica di Bose. Articolo tratto da “La Rivista del Clero Italiano” (Vita e Pensiero), n. 11/2015. Scarica la versione integrale