“La speranza è un rischio da correre”. La frase presa in prestito da Georges Bernanos che campeggia al termine del video “Lei non sa chi sono io” è la sintesi della breve e intensa vita di Francesco Maria Gallone, studente dell’Università Cattolica, che il 4 aprile avrebbe dovuto laurearsi in Scienze dell’educazione e della formazione.

Non ce l’ha fatta. La malattia, che ha aggravato la sua condizione di disabilità nell’ultimo anno, ha posto fine alla sua esistenza due mesi fa. Ma non alla sua presenza che si fa sentire forte e chiara nelle persone che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e di fare un tratto di strada insieme a lui. In famiglia, in università, allo stadio a tifare Inter, alla redazione de Il Giornale, dove aveva un suo blog e dove combatteva le sue piccole grandi battaglie contro le barriere architettoniche.

La commissione che avrebbe dovuto conferirgli il titolo, prima dell’inizio della sessione di laurea, si è riunita in una gremita aula Pio XI per consegnare alla mamma Anna un attestato con la dichiarazione che Francesco possedeva tutti i requisiti per conseguire la laurea in Scienze dell’educazione e della formazione.

Ed è proprio la mamma a sedersi al tavolo del candidato, non per esporre la dissertazione del figlio ma per dire chi è Francesco oggi: «Presente nel sorriso e nel “cinque” che scambiava con i compagni, nella mano sempre pronta a stringere quella di chi soffre, nell’allegria di chi ha studiato con lui a casa, in macchina, in ospedale, nella determinazione di chi l’ha aiutato a capire la filosofia, negli occhi dei giornalisti orgogliosi di lui, nelle braccia materne dove sono custodite la gioia e il dolore che l’hanno reso vivo per sempre».

La sua tesi di laurea sul tema della cura non solo medica ma anche affettiva e relazionale, ha ricordato il professor Luigi Pati, preside della facoltà di Scienze della formazione e relatore di Francesco, dice dell’importanza che aveva per lui la solidarietà, l’aiuto attraverso le parole ma anche attraverso la comunicazione non verbale.

«Sereno, vivace, stimolante – ha ricordato il preside – Francesco ha ricevuto molto ma ha dato moltissimo, ha arricchito tutti coloro che l’hanno conosciuto. Tra le considerazioni scritte cha ha lasciato in occasione delle attività didattiche ci sono la convinzione che la reciprocità nella relazione è fondamentale in qualsiasi ambiente ci si trovi, e l’importanza del dialogo empatico con le persone».

Per usare una metafora calcistica in onore della sua Inter, Francesco ha giocato la sua partita fino in fondo, allenandosi giorno per giorno, con la grinta e l’allegria che conducono al gol ma che non escludono la fatica, le cadute e i rigori incassati. Si riteneva fortunato di vivere, sorrideva a tutti e sapeva dare e chiedere amore.

A dispetto di ogni frustrazione e di ogni dolore «Francesco sapeva che comunque fossero andate le cose lui non sarebbe stato mai solo e questa era la sua fede». La mamma non nasconde la commozione nel dire che «anche quando ormai non riusciva più a respirare bene continuava a chiedere se gli volevo bene». Anche lei ha imparato da Francesco a chiedere, proprio come faceva lui. A chiedere l’affetto e la tutela delle persone che come lui vedono il mondo dal basso, dall’altezza di una carrozzina.