Di Galileo si pensava di conoscere ormai tutto e invece le ricerche d’archivio riservano talvolta sorprese, facendo riemergere testi che si consideravano irrimediabilmente perduti. Ed è proprio quello che è accaduto alcuni mesi fa a Salvatore Ricciardo, assegnista di ricerca all’Università di Bergamo, spulciando fra i cataloghi della Royal Society Library di Londra. Il ricercatore ha rinvenuto l’autografo della celebre Lettera di Galileo a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Un documento di inestimabile valore – la prima delle celeberrime Lettere Copernicane – che è in realtà un breve trattato in forma epistolare, nel quale Galileo espone per la prima volta la propria visione dei rapporti tra scienza e religione, rivendicando la piena autonomia della ricerca scientifica dalla teologia, e difende il sistema copernicano dalle accuse di inconciliabilità con la Sacra Scrittura.

L’importanza di questa scoperta è stata spiegata da Franco Giudice, docente di Storia della Scienza all’Università di Bergamo, e dal ricercatore dello stesso Ateneo Salvatore Ricciardo, nel corso di due incontri a Milano e a Brescia, su invito del preside di Lettere Angelo Bianchi e di quello di Scienze matematiche fisiche e naturali Maurizio Paolini.

Fino a ora la Lettera a Castelli era conosciuta soltanto attraverso copie manoscritte, i dodici testimoni collazionati da Antonio Favaro nel 1895. 

La vasta circolazione delle lettere galileiane preoccupò vivamente il domenicano fiorentino Niccolò Lorini al punto da inviarne copia a Roma, denunciando come «sospette e temerarie» le teorie espostevi da Galileo, un’opinione «in tutto contraria alle Sacre Lettere». Una settimana più tardi, Galileo inviò a Roma al fidato amico monsignor Piero Dini la versione della Lettera redatta «nel modo giusto che l’ho scritta io», manifestando il sospetto che qualcuno l’avesse cambiata per farne risaltare maggiormente le pericolose implicazioni teologiche.

L’autografo appena riemerso dal lungo oblio racconta invece, contrariamente a quanto era circolato fino a ora, che è corrispondente alla lettera depositata in Vaticano. Solamente nel testo inviato a Castelli da Galileo, essendo venuto a conoscenza della denuncia, si preoccupò di moderare le espressioni (come si evince dalle cancellature) che temeva potessero urtare la sensibilità degli inquisitori. 

Quindi oggi possiamo dire che il codice dell’Archivio Segreto conteneva la copia fedele della stesura originaria della Lettera a Castelli modificata successivamente da Galileo.