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Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo del professor Gabrio Forti “Un senso comune per due anniversari”, apparso su Rivista Italiana di Medicina Legale (Anno XXXV Fasc. 3 – 2019, Giuffrè Francis Lefebvre), nel quale il direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale rilegge cent’anni dopo, sotto diverse prospettive, la terribile pandemia detta “Spagnola”
di Gabrio Forti *
L’anno che abbiamo da poco concluso richiama una delle vicende più sinistramente emblematiche dell’intera storia dell’umanità. Nel 2019 corre il centenario della pace di Versailles che, soprattutto per la “ingiustizia” delle scelte ivi adottate, concluse in modo del tutto insoddisfacente il primo conflitto mondiale.
Il 1919 fu anche l’anno in cui si registrò la terza ondata della devastante pandemia di influenza detta “Spagnola” (propriamente il virus influenzale H1N1), che qualcuno ha definito «la madre di tutte le pandemie», «il paradigma epidemico del ventesimo secolo e lo spettro dell’epidemia che verrà», o anche «un olocausto sanitario rimosso per quasi un secolo».
Diffusasi all’inizio del 1918, la pandemia di “Spagnola” aveva subito una svolta particolarmente aggressiva dal punto di vista epidemiologico, già nell’estate del 1918.
Quando si fu esaurita, nel 1920, la pandemia aveva lasciato dietro di sé, secondo le stime più riduttive, 31 milioni di morti (dopo averne contagiati circa 500 milioni), ma, secondo valutazioni epidemiologiche più recenti e attendibili (che tengono maggiormente conto della sua diffusione in aree extraeuropee), dai 50 ai 100 milioni, pari, secondo certe stime, al 3-5% della popolazione mondiale di allora e con un abbattimento di oltre 10 anni dell’aspettativa di vita media delle persone. Cifre che sorpassano largamente il numero delle vittime della Grande guerra e che ne fanno, se non proprio la più mortifera pandemia nella storia dell’umanità – probabilmente sopravanzate dalla Peste Nera del Trecento cui si dovettero in Europa e In Asia, secondo stime approssimative, dai 75 ai 200 milioni di decessi – certo un evento di immani proporzioni catastrofiche.
L’enormità delle conseguenze meriterebbe di per sé una seria rievocazione anche per le prospettive di comprensione e prevenzione di recenti e future pandemie che le vicende sanitarie del 1918-20 possono offrire a virologi ed epidemiologi.
Al di là della tremenda “conta dei morti” e degli insegnamenti per virologi ed epidemiologi che essa ha apportato, c‘è un “filo” che sembra attraversare e congiungere vari risvolti di interesse storiografico, economico, sanitario e sociologico di quella imponente vicenda.
Una prima componente di questo orizzonte è costituita dalla svalutazione popolare, mediatica e politica dei saperi esperti, fenomeno acuitosi ultimamente, ma che ha radici antiche, se è vero che già Giovanni Sartori, quarant’anni fa, scriveva che «lo stato di disattenzione, sotto informazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante, solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata».
La seconda componente, strettamente correlata alla prima, è la «infantilizzazione» della discussione pubblica, ormai ridotta a «banale contrapposizione amico-nemico», di cui danno ampio esempio i dirigenti politici, «prigionieri di una dimensione discorsiva insieme aggressiva e infantile, fatta di mezze idee (spesso sbagliate) ascoltate chissà dove e chissà da chi». Ne deriva una corrispondente tendenza a impostare i problemi sociali in una forma polarizzata che registra frequentemente uno scivolamento verso la criminalizzazione o quanto meno il rivestimento e la chiusura dei problemi individuali e sociali entro un involucro di conflittualità giudiziaria e iperlegalistica. La “nomorrea penale” lamentata oltre un secolo fa dal grande giurista toscano Francesco Carrara sembra ormai assurgere a categoria dello spirito, a cifra della attualità socio-antropologica.
È proprio la riflessione retrospettiva sull’immane catastrofe della pandemia “Spagnola” a illustrare ampiamente l’importanza, per la comprensione di quegli avvenimenti (e per la prevenzione di sue possibili ricorrenze), di «un enorme sforzo multidisciplinare», del «contributo congiunto di storici e scienziati, scienziati sociali compresi». Sforzo già nel frattempo dispiegatosi visto che, se all’epoca a occuparsi della pandemia, «a parte gli attuari delle compagnie assicurative», erano stati «epidemiologi, virologi e storici della medicina», da qualche decennio «la storiografia sull’influenza spagnola è letteralmente esplosa», e vi ci si dedica una «rinnovata attenzione» multidisciplinare: oltre agli storici, hanno cominciato a interessarsi all’argomento anche economisti, sociologi e psicologi.
Emblematica manifestazione di tale mentalità può considerarsi di per sé la denominazione della pandemia: “Spagnola”. Se ne danno varie spiegazioni attendibili, ma si è particolarmente insistito sulla versione secondo cui al primo scatenarsi del virus (probabilmente a partire dagli Stati Uniti, già intervenuti nel conflitto al fianco dell’Intesa) i paesi in guerra temettero ne potesse derivare un indebolimento dello sforzo bellico. Giunse così propizia l’idea di localizzare in una nazione neutrale come la Spagna il focolaio della malattia, anche se quando essa arrivò in quel paese si era già diffusa in America da due mesi, e in Francia da qualche settimana almeno. Oggi diremmo che si sia trattato di una “arma di distrazione di massa” o, quanto meno, di una delle molte fake news di cui è costellata la storia, non solo la cronaca odierna.
Potremmo dire che una tale primigenia distorsione cognitiva prodotta dal clima guerresco si sia prolungata nel tempo, coinvolgendo vari aspetti contemporanei e successivi nella gestione ed elaborazione di quella esperienza.
I grandi studiosi dei bias, delle scorciatoie cognitive che producono una percezione e conoscenza distorta della realtà, sono arrivati alla conclusione che ognuna di esse concorra a favorire la posizione dei c.d. “falchi”. Nel senso che i leader politici (ma in realtà i partecipanti a innumerevoli altri contesti sociali) «tendono a esagerare le cattive intenzioni degli avversari e a sbagliarsi nel giudicare le loro percezioni», così come a «essere eccessivamente ottimisti sull’esito di conflitti e riluttanti a negoziare e fare concessioni».
L’atteggiamento da “falchi” (invece che da “colombe”) deriva da una generale propensione all’ottimismo, che sovrastima i benefici e sottostima i costi delle decisioni da adottare.
Questa spinta a vestire i panni del “falco” appare omologa o comunque molto affine alla attrattiva che presenta l’attribuzione di qualificazioni “criminali” ai più disparati problemi sociali e ai soggetti che ne siano coinvolti.
Un’interferenza del pensare “da falchi” sulle decisioni pubbliche e sugli atteggiamenti popolari, sotto forma di una sopravvalutazione delle intenzioni ostili altrui (oggi si parlerebbe di complottismi e teorie della cospirazione), può rinvenirsi in quanto accadde ad esempio in Brasile all’epoca della “Spagnola”, anche a seguito delle campagne di vaccinazione obbligatoria lanciate a partire dal 1904 dal presidente Rodrigues Alves on l’ausilio del medico Oswaldo Cruz. Campagne cui i brasiliani delle classi povere reagirono con una «rivolta del vaccino», che divenne «l’espressione di una vera e propria lotta di classe» e di una contrapposizione nei confronti delle élites. Un’ostilità la cui onda lunga arrivò fino al 1918, quando calò sul paese la nuova pandemia e la reazione popolare verso quella nuova minaccia fu caratterizzata dal «timore che le autorità stessero esagerando le paure legate a una semplice limpa-velhos – ammazzavecchi – per giustificare l’imposizione di una “dittatura della scienza” e la violazione dei diritti civili».
Ma un esempio eloquente di queste selettive dinamiche mnestiche è proprio offerto dalla pandemia di “Spagnola” e dai suoi «caduti dimenticati».
A testimoniare ulteriormente il significato che assume nei diversi periodi storici la memoria, narrazione e rielaborazione delle malattie del passato e in particolare della pandemia “spagnola” è forse il riscontro di una crescita di attenzione per l’argomento anche nella cultura popolare, al punto da dire che «nel XXI secolo gli scrittori hanno ormai messo la malattia accanto all’amore, alla gelosia e alla guerra come argomento degno di essere trattato e l’influenza spagnola è finalmente penetrata anche nella cultura popolare, come sfondo di romanzi, film e serie tv».
Probabilmente ciò è il segno che si sta sviluppando (e che si sente finalmente il bisogno) di una “nuova narrazione”, di «un nuovo linguaggio», non solo per la scienza medica, ma per ogni profilo disciplinare che voglia confrontarsi con il problema della malattia, consapevole della necessità di comprenderlo e fronteggiarlo senza scomodare criminali o eroi e disponendo di un linguaggio capace di comunicare e interagire con quello dei portatori di altre competenze e saperi. Anche il «punto di vista» del diritto e in particolare del diritto penale, di cui Federico Stella invitava a tenere conto nel dialogo interdisciplinare, in campo sanitario (e non solo), dovrebbe essere illuminato dalle dolorose esperienze di un secolo fa e dalle nuove narrazioni che permettano di elaborarne il senso, specie su problemi assai più ordinari e quotidiani.
Basti citarne in questa sede uno solo, ben noto alla comunità dei medici e dei giuristi: il problema della medicina difensiva, fenomeno che segnala palesemente le degenerazioni del c.d. approccio accusatorio e del pensiero dicotomico nella trattazione dell’errore medico, con il risultato di spingere il sanitario a chiudersi in “trincea” per ripararsi dagli attacchi a cui si senta esposto.
Meno scontato è rilevare che anche i rimedi concepiti per fronteggiarla, almeno quando hanno ritenuto di mobilitare interventi nella materia penale (l’art. 3 della legge 189/2012 e l’art. 590-sexies del codice penale introdotto dalla riforma Gelli Bianco) a parere di chi scrive, appaiono espressione di quegli stessi atteggiamenti e situazioni che sono all’origine del problema. Ci si riferisce a quello che si potrebbe definire l’“arruolamento” forzato, da parte di entrambe le riforme, delle linee guida nella “schiera” delle regole cautelari, in quanto largamente assunte a parametro di valutazione della colpa medica. Con ciò tradendo – pare proprio – la natura delle clinical practice guidelines che, secondo una nota definizione, «are systematically developed statements to assist practitioner and patient decisions about appropriate health care for specific clinical circumstances».
La «cura appropriata della salute» del paziente non dovrebbe essere riduttivamente assimilata all’adozione di decisioni e condotte «volte a neutralizzare o minimizzare il rischio» e a evitare la causazione di eventi dannosi. Caratteristiche che competono appunto all’osservanza di quelle regole cautelari la cui violazione è alla base dell’imputazione colposa, ma le cui finalità difensive, modulate in rapporto all’incombere di possibili eventi dannosi, solo in parte corrispondono ai contenuti e, soprattutto, allo spirito di cura e promozione della salute e del benessere del paziente, che dovrebbe informare il senso e la applicazione delle linee guida e dei doveri del medico.
Forse anche in questo campo il nostro legislatore è stato ghermito dalla seducente presa del “falco”?
* Direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale, professore ordinario di Diritto penale e Criminologia alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – campus di Milano