di Cristina Bon *

Una storia che continua a ripetersi. In cui la questione razziale carsicamente riemerge. Fin dove affondano le radici del problema? Sicuramente possiamo risalire almeno alle origini dell’esperimento politico-istituzionale statunitense, ma potremmo anche spingerci oltre, all’epoca coloniale, e in particolare dalla seconda metà del Seicento quando i primi schiavi di origine africana sbarcarono sulle coste della Chesapeake Bay e delle Carolinas. Il sistema schiavista importato dagli stati europei nelle Americhe, e quindi anche in Nord-America, era sicuramente ereditario, razzista e pensato per generare ricchezza, principalmente attraverso attività minerarie o di coltivazione di cash crops

Gli schiavi afro-americani diventano parte del sistema federale dalle origini, al punto da diventare oggetto di un importante compromesso costituzionale sul calcolo della ripartizione delle tasse da un lato e della distribuzione dei seggi presso la Camera federale. Così, la Repubblica statunitense, che da un lato si fondava su principi di eguaglianza di fronte alla legge e di protezione della libertà individuale, dall’altro vincolava tutti i contraenti alla schiavitù – una istituzione a base razziale – attraverso una serie di disposizioni tese direttamente a proteggere la cosiddetta peculiar institution del Sud. 

La storia americana della prima metà dell’800 è quindi inestricabilmente legata alla schiavitù e ai conflitti federali che ne derivarono e la Guerra Civile americana fu innescata da visioni profondamente contrastanti sul destino della schiavitù e la sua espansione dei territori dell’Ovest. Non a caso le più importanti conquiste politiche della Guerra Civile sono rappresentate dagli emendamenti costituzionali XIII (1865), XIV (1868) e XV (1870), che aboliscono la schiavitù e garantiscono eguali diritti civili e politici agli schiavi liberati.

Già quindi solo guardando ai momenti fondativi dello stato-nazione americano è evidente come la storia degli afro-americani negli Stati Uniti, prima schiavi e poi freedmen, rappresenti una parte imprescindibile del processo di costruzione dell’identità nazionale statunitense. Fin dal secolo scorso, e soprattutto dagli anni ‘60 in poi, storici del calibro di W.E.B. Du Bois, Ira Berlin ed Eric Foner hanno contribuito a mettere in luce questa storia, dimostrando in particolare il ruolo assolutamente attivo degli afro-americani nella conquista dell’emancipazione dalla schiavitù, dei diritti civili, dei diritti politici e in tutte le piccole e grandi battaglie per il raggiungimento di una reale eguaglianza sociale ed economica. 

Dalle rivolte schiaviste della prima metà dell’800, ai primi incarichi pubblici conquistati negli Stati del Sud grazie a una grande mobilitazione elettorale dei neri liberati nella prima fase della Ricostruzione post Guerra Civile, agli scioperi per gli aumenti salariali della seconda metà dell’800, alle marce da Selma a Montgomery del 1965, l’attivismo dei black-americans caratterizza costantemente tutte le fasi della storia statunitense. Solo pochi mesi fa, Nikola Hannah-Jones, una firma del giornalismo americano particolarmente apprezzata per le sue indagini sulla discriminazione razziale, scriveva sulle colonne del NY Times: “Gli americani neri sono stati, e continuano a essere, fondamentali per l’idea di libertà del Paese […] più di qualsiasi altro gruppo di persone, noi neri abbiamo svolto, generazione dopo generazione un ruolo sottovalutato ma fondamentale: siamo stati noi a perfezionare la democrazia statunitense”.

Alla luce di questa lunga storia, si può dire che la lotta per i diritti civili, politici, economici e sociali dei black-americans non abbia mai preso una “vacanza”, non sia mai sparita del tutto per poi ripresentarsi dal nulla. Certo in alcuni momenti ha assunto maggiore forza, visibilità e ha portato, come oggi, a scontri violenti con autorità e forze dell’ordine; ma è di fatto un processo in corso dalle origini della Federazione.

Un ulteriore aspetto su cui riflettere, da un punto di vista squisitamente storico-istituzionale, riguarda il rapporto fra questione razziale ed evoluzione del federalismo americano, dei rapporti fra livello federale e livello statuale. Se alle origini il federalismo americano è un federalismo duale, con una netta divisione di competenze fra livello federale e livello statuale e un’ampia sfera di autonomia statuale, dopo la Guerra Civile si pongono le basi teoriche per un superamento di questo tipo di relazione federale. Gli emendamenti XIII, XIV e XV sembrano infatti concepiti per limitare gli Stati nella loro capacità legislativa interna, e quindi rappresentano una virata costituzionale verso una maggiore centralizzazione del sistema federale. Tutti e tre gli emendamenti contengono infatti una clausola che autorizza il Congresso a dare esecuzione “enforce” alle leggi e ai principi contenuti negli emendamenti stessi. Tuttavia, questo “enforcement” venne molto ridimensionato dalle sentenze della Corte Suprema nella seconda metà dell’800, fino ad arrivare alla sentenza del caso Plessy v. Ferguson (1896), che ammise di fatto la costituzionalità della segregazione razziale. In quell’occasione la Corte suprema non ritenne contrarie al XIV emendamento le leggi degli stati del Sud che prescrivevano che i servizi pubblici (trasporti, scuole ecc.) venissero forniti ai cittadini tenendo però separati, nella fruizione, bianchi e neri.

In questo modo, di fatto i governi degli Stati furono legittimati a perseguire le politiche di segregazione, mentre parallelamente ostacolavano anche l’accesso al diritto di voto introducendo, ad esempio, i famosi test di alfabetismo.

* docente di Storia delle istituzioni politiche, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano