«Oggi le persone possono essere monogamiche più volte, esserlo cioè “in serie”, invece che essere monogamiche per sempre. Questo è il grande mutamento culturale degli ultimi trent’anni, insieme all’affermarsi del mito dominante di felicità». Sono questi i due fattori principali alla base della crisi della coppia secondo gli psicologi dell’ateneo Vittorio Cigoli e Davide Margola. Cigoli, professore emerito di Psicologia clinica, e Margola, professore di Psicopatologia e responsabile del Servizio di Psicologia clinica per la coppia e la famiglia, sono tra i promotori della Summer School “Terapia di coppia. L’approccio integrativo: infedeltà, depressione, crisi genitoriale”, che dal 24 al 26 settembre affronterà la questione anche dal punto di vista dell’intervento clinico.
«D’altra parte - spiegano i due psicologi - non ci sono scuole di specializzazione o percorsi post lauream dedicati all’incontro con la coppia e un numero sempre più elevato di coppie fa richiesta di aiuto e avanza una domanda di cura a servizi e professionisti. Con questa iniziativa vogliamo inoltre sensibilizzare quei colleghi per lo più abituati a incontrare le persone individualmente; persone che di sovente metteranno comunque a tema i loro legami di coppia».
Un lavoro che prosegue anche dopo l’estate con il Servizio di Psicologia clinica per la coppia e la famiglia, gli eventi di formazione e supervisione organizzati nel corso dell’anno e il master in Clinica della relazione di coppia, attivo da tempo e arrivato alla sua quinta edizione. «Nei prossimi mesi verrà anche organizzata una Winter School, che presenterà il nostro modello relazionale-simbolico e le tecniche che utilizziamo», ci ricordano Cigoli e Margola, a cui abbiamo chiesto di spiegare i motivi della crisi della coppia.
«Oggi c’è un grandissimo investimento nel mito profano della felicità e del diritto delle persone di inseguirla e cercarla costantemente nell’incontro con l’altro. Ovviamente, è così alta la tensione ideale (un fatto questo anche positivo e fondativo del legame, ma che non può essere esclusivo), che la possibilità per la coppia di reggere e “sfidare” il tempo è diventata sempre più difficile. Sparisce, insomma, o diventa marginale il sentimento dell’eternità del legame. I rapporti di coppia significativi sono in realtà “per sempre”, perché accompagnano le persone anche al di là della morte».
Ma desiderare di essere felici non è un fatto positivo? «Non stiamo sostenendo che la domanda di felicità debba essere tolta dall’umano, perché sarebbe come operare un’amputazione quasi chirurgica dell’umano medesimo. Il problema è se la ricerca di felicità si realizza a discapito dell’altro (il coniuge), se viene esasperata in quanto unica opzione esistenziale e se, soprattutto, viene sganciata dal tema della verità (anche di quella parte di verità che può essere dolorosa). In questo caso, infatti, il rischio è che l’altro non sia molto diverso da una sorta di stupefacente in grado di garantire sollievo e una momentanea esaltazione, ma che non risolve il problema della persona in quanto “essere in relazione”, anzi lo aggrava».
Il problema quindi è l’idealizzazione dell’altro come risposta alla propria esigenza di felicità? «Sì, e questo accade reciprocamente. Nel processo di idealizzazione la coppia pensa di farsi da sé, quasi non contassero i legami precedenti che risalgono ai rapporti di ciascuno con e nelle proprie famiglie d’origine. Lo stesso accade con i figli, che sono messi a loro volta in secondo piano, specie nelle situazioni di conflitto coniugale, o sui quali al contrario si trasferiscono le stesse dinamiche di idealizzazione di cui dicevamo. In effetti, non c’è mai stato un tempo come il nostro che ha visto così tante attenzioni e cure nei confronti dei figli, talora vissuti alla stregua di una proprietà personale. La psicologia ha fatto la sua parte; ha incentivato a dismisura il diritto del bambino e dell’adolescente e ha costruito un mondo di immagini e di ideali di crescita molto elevati. Così, capita che l’altro sia solo funzione di un bisogno o di un momento particolare di vita (anche nel caso della scelta di fare un figlio) e quando questo bisogno si sarà esaurito o quel momento sarà passato, l’altro perderà quasi inevitabilmente in attrattiva e in importanza».
Quanto pesano i cambiamenti sociali e culturali sulla coppia? «Oggi sulla coppia coniugale-genitoriale si riversa l’enorme massa di pressioni ed esigenze di sviluppo dei suoi diversi componenti. Ci sono poi condizioni sociali, economiche e di realizzazione della persona a spiegare questi mutamenti, così come lo spostamento sempre più in avanti delle scelte generative. Dobbiamo però tenere presente che i cambiamenti sociali non corrispondono ai cambiamenti psichici, che sono più lenti, o che comunque hanno altre evoluzioni. Il cambiamento è stato così rapido che le norme culturali, anche in termini di ideali inconsci, non hanno avuto il tempo di adattarsi alla realtà. Di qui l’esistenza di molte contraddizioni».
Quali sono queste contraddizioni? E quali le conseguenze? «Le vediamo guardando per esempio al tema della genitorialità. A un certo punto della vita di coppia ci si ferma per avere dei figli. Così, tutto quello che era stato marginalizzato nel legame, riaffiora mettendo la persona di fronte a un fatto: di essere lui stesso un “generato”. Non stupisce infatti che buona parte delle crisi di coppia avvenga proprio a cavallo della nascita del figlio. L’arrivo del “terzo” sulla scena, ricomponendo la questione generazionale, presentifica il rapporto con le origini e col futuro, prima ricacciati sullo sfondo, a favore del presente, del rispecchiamento reciproco e dell’unione fusionale. È evidente come la nascita del figlio possa attaccare la relazione diadica, specie se essa è vissuta come autoreferenziale. Non è neanche infrequente che proprio nei pressi dell’evento nascita si presenti sulla scena un “altro terzo” – pensiamo alle relazioni extraconiugali. Terzo che è chiamato a riparare il dolore per la perdita del sentimento di unicità di coppia che proprio il figlio viene paradossalmente a minacciare».
Da dove si può ripartire? «Anzitutto occorre reintrodurre il senso del limite, che significa riconoscere il limite proprio e quello altrui. L’altro non è l’immagine di se stessi. L’altro è sempre un aspetto disconosciuto, ma anche decisivo per noi stessi e per la nostra crescita personale. In secondo luogo occorre apprezzare la scelta che è stata fatta e darle valore, rinnovandola. Per vivere insieme a lungo bisogna riconoscere i limiti dell’altro, ma riconoscere al contempo che l’altro ha valore in sé e per me e che il legame “merita”. Fino a che il legame resta al livello di un’unione che esclude la differenza (e con essa l’aspetto di limite), che vela la differenza (piuttosto che trattarla, insieme all’inevitabile perdita che nello scegliersi della coppia è comunque in atto), tutto quello che perturba l’immaginario di una “complementarietà perfetta” finirà per rompere il legame».