di Ginevra Gobbi, Antonela Jelec*
La riforma degli organismi economici della Santa Sede è stata una delle priorità dell’avvio del pontificato di Papa Francesco. Ma oggi, dopo la promulgazione del Motu proprio Fidelis dispensator et prudens, con il quale il Pontefice ha costituito una struttura di coordinamento degli affari economici ed amministrativi della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano, siamo già pronti per una release 2.0. Ne è convinto Mons. Mauro Rivella, attuale segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA) e membro della Sezione Amministrativa della Segreteria per l’Economia che lo scorso 29 febbraio, su invito del prof. Antonio G. Chizzoniti ha tenuto a Piacenza nel Corso di Diritto canonico una lezione sul tema.
Il prelato vaticano nel soffermarsi su ruolo e funzioni del Consiglio per l’Economia, della Segreteria per l’Economia e dell'ufficio del Revisore Generale e sugli interventi di revisione della struttura dello IOR e il riassetto dell’APSA, ha sottolineato l’importanza e l’urgenza della revisione dei criteri di gestione del patrimonio della Chiesa.
Una riforma che ha toccato molti dei soggetti che in precedenza si occupavano della gestione economica del Vaticano: il Consiglio dei 15 cardinali, la Prefettura degli affari economici della Santa Sede (non più esistenti) e la stessa APSA. Oggi quest’ultimo organismo, superata l’originaria struttura in sezioni (ordinaria e straordinaria, le cui competenze per la gestione del patrimonio immobiliare e mobiliare sono state in parte trasferite alla Segreteria per l’Economia), ha adottato una ripartizione per aree: una prima focalizzata sulla gestione immobiliare e una seconda sull’attività finanziaria.
Come rilevato da Mons. Rivella, si è andati verso un modello al passo con i tempi che, nel rispetto delle peculiarità e finalità della Chiesa, si caratterizzasse per “la trasparenza, la segregation of duties e il principio dei quattr’occhi perché: tutto ciò che è opaco non funziona, lascia ombre e non assicura chiarezza".
Ma l’opportuno ricorso a parametri economico-aziendalistici senza contemperamenti potrebbe non essere sempre il miglior criterio gestioni di un patrimonio con vincoli di destinazioni del tutto peculiari qual è quello della Chiesa. Due gli esempi proposti dal segretario dell'APSA. La Santa Sede conta oggi circa 3000 immobili di proprietà, un patrimonio che gestito con criteri di mera economicità (meglio se da una società esterna) potrebbe fruttare annualmente fino a 10 milioni di euro più di quanto attualmente rende. Ma più della metà di questi sono affidati a dipendenti del Vaticano, con riduzioni del canone che raggiungono anche il 40% dei prezzi di mercato, un aumento indiscriminato o addirittura uno sfratto significherebbe attribuire tali atti al Papa. Non meno significato, secondo mons. Rivella, il caso degli investimenti finanziari che nella ricerca ancora una volta della massimizzazione del profitto potrebbero comportare impegni in società eticamente discutibili (armamenti, industrie impegnate nella produzione di farmaci abortivi o con organizzazione del lavoro non rispettosa dei diritti umani).
La sfida della Chiesa, ha concluso mons. Rivella, si gioca nella necessità di conciliare la gestione del proprio patrimonio con due affermazioni evangeliche apparentemente in contraddizione: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14) , «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36).
Dio si è fatto uomo, condivide la realtà umana, non ci sono quindi aspetti di questo mondo da rigettare aprioristicamente, non è pensabile quindi che la Chiesa non utilizzi per il perseguimento dei proprio fini gli strumenti di diritto ed economia. Ma è anche vero che i parametri mondani non sono della Chiesa. Non è dunque la massimizzazione del profitto la legge che può governare la Chiesa, ma una gestione trasparente del proprio patrimonio è indispensabile per non tradirne i fini.
*Studenti del corso di laurea in Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza