di Francesco D’Alessandro*
Non vi è nulla di originale nell’indicare la corruzione come un fenomeno criminale dai caratteri emergenziali. Da anni gli studi più attenti dimostrano come i costi sociali connessi al dilagare del malaffare costituiscano un contrappeso troppo oneroso per la crescita dell’Italia: a un più alto livello di corruzione, corrispondono una minor attrattività per gli investitori stranieri, meno produttività, meno progresso tecnico, un minor numero di imprese sane e, dunque, anche un più alto indice di disoccupazione.
Nonostante il dato sia acquisito, e il legislatore sia ripetutamente intervenuto per stringere le morse della normativa di contrasto, i risultati sono però ancora assai deludenti: nell’ultimo indice sulla corruzione percepita (Cpi) elaborato da Transparency - la più grande organizzazione a livello globale che si occupa di prevenire e contrastare il fenomeno - l’Italia occupa ancora il penultimo posto nel panorama europeo e il 61esimo a livello mondiale, seguita solamente dalla Bulgaria e dietro altri Paesi generalmente considerati molto corrotti come Romania e Grecia. Un dato che, pur segnando un minimo miglioramento rispetto all’anno precedente, in cui l’Italia figurava al 69esimo posto, indica che la strada da percorrere sia ancora lunga.
In questo contesto, sarebbe certamente velleitario ambire a elaborare la ricetta per un intervento risolutore. Si può - e si deve - però provare a impostare un programma di lavoro che, sulla base di un attento studio del dato empirico, persegua obiettivi di reale effettività, senza riproporre alcuni vizi della normativa più recente.
È chiaro a tutti che un’efficace strategia di contrasto non passi per continui innalzamenti delle pene previste per questo tipo di reati. Serve, invece, un forte investimento sugli strumenti capaci di prevenire la corruzione, disinnescando i fattori che concorrono a creare un habitat favorevole a dinamiche corruttive. Può dirsi definitivamente conclusa l’epoca per piani anticorruzione intessuti su interventi repressivi che presuppongono la commissione del reato e la conseguente verificazione dei già citati pregiudizi per l’ordine economico.
La strada non può che essere quella della prevenzione. Per orientarsi in tale percorso, è però fondamentale una compiuta comprensione delle dinamiche corruttive: occorre, cioè, avvedersi di come si dipanino anche in settori della criminalità tradizionalmente concepiti come separati e distinti. Dal mondo delle imprese, delle grandi attività economiche a quello della criminalità organizzata, nel quale si assiste, con un curioso mutamento del fenotipo criminologico, al più frequente ricorso alla corruzione al posto della violenza. Ecco, allora, che il titolo del seminario promosso ieri dalla Procura Generale della Repubblica di Brescia e dalla sede bresciana dell’Università Cattolica (aula magna, via Trieste 17) ha colto perfettamente nel segno nella misura in cui suggerisce di affrontare questo fenomeno non solo come reato bensì, anche, come strumento di altri reati.
*Ordinario di Diritto penale commerciale, facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica