di Fabrizio Scarano *
La missione della vita è quella di scrivere il proprio nome, quello che la storia ci porta ad assumere. Un nome da scrivere in matita, con tratto leggero, perché in continua evoluzione. Io mi sto impegnando a scrivere il mio e il Bangladesh e la sua gente mi hanno aiutato a farlo in larga parte. Suor Daniela, a uno dei primi incontri del Mex (un progetto di missione organizzato dall’Ateneo in collaborazione con il Pime) disse una cosa che mi è rimasta molto impressa, ossia che per far sacro un valore, un ideale, per realizzare, insomma, qualcosa di importante, bisogna saper sacrificare qualcos’altro. Quando la sentii per la prima volta mi sembrò di aver conservato quella frase nel cuore e qualcuno, in quel momento, l’aveva svelata in tutta la sua forza, in tutta la sua bellezza, tanto che sarebbe stato impossibile non crederci. E così è stato. Il valore del sacrificio, di un sacrificio che non sia fine a se stesso, ma un dono per l’altro.
E in missione ho visto e vissuto molto di tutto ciò, quella fonte di significato che rende la vita degna di essere vissuta. Quella sorgente che tante volte nella società post-moderna del progresso a ogni costo viene a mancare, perché la felicità ci viene presentata come una guerra, in cui annientare l’altro, per avere di più ed essere un po’ di meno. E ora posso dire che gli incontri che ho avuto mi hanno fatto essere un po’ di più e avere un po’ di meno.
L’incontro è qualcosa di unico perché uno più uno non fa due: fare incontrare due esseri umani porta alla nascita del nuovo, di un risultato inaspettato, ma soprattutto imprevedibile, perché l’altro, nella sua differenza e nel suo essere unico, ci sorprende sempre. E uno dei regali più belli della missione è stato proprio questo: lasciarmi sorprendere dalla vita. Lasciarsi cambiare dalla storia, dagli incontri, dall’altro. Incontrare l’altro per me ha significato anche incontrare la mia fragilità. Tutti facciamo esperienza della fragilità umana, e in missione ho imparato ad accoglierla, perché sono le cose fragili a custodire la bellezza della vita.
Le emozioni che ho provato sono state moltissime e molto diverse tra loro, emozioni positive e talvolta anche negative, perché non bisogna pensare alla missione come un viaggio in qualche bel posto esotico, ma un cammino del cuore che inizia già molto prima della partenza. Il cuore, infatti, è quel luogo in cui nascono i desideri, dove si elaborano i progetti, i desideri, gli affetti, le immaginazioni. Il cuore è luogo invisibile agli altri, inaccessibile all’esterno, è la parte più segreta del nostro essere. Quel mondo che nessuno vede ma che tutto determina. Tanto che si può cadere in forme di malattia psichica, in fragilità psicologiche se non si veglia o se non si riceve un’educazione che porti ad avere questa attenzione alla propria interiorità.
A proposito di interiorità, uno dei momenti più belli di tutta l’esperienza è stata l’accoglienza alla missione di Butahara. Sentivo che quelle persone erano sinceramente felici di accoglierci e la cosa più bella che un essere umano può sperimentare è la gratuità dei gesti, dei sentimenti, dei doni e dell’amore. E mi sono sentito amato. Sembrerebbe assurdo: sentirsi amati da sconosciuti che non parlano nemmeno una parola della tua stessa lingua. Eppure ci siamo capiti così bene! Forse perché il vero linguaggio degli uomini è quello del cuore. La vita vera si scambia e si comunica nella condivisione, che parla il linguaggio del cuore e che non necessita di alcuna oggettivazione.
Spesso, vivendo la vita dei villaggi e della missione, ho sperimentato la mancanza di alcuni beni materiali, spesso necessari. Non era piacevole ma lo stato d’animo prevalente con cui ho vissuto questa esperienza era diverso: “Qui non c’è nulla ma è come se non mancasse nulla” pensavo spesso, perché ho sperimentato la bellezza della relazione, di una condivisione vera, di quanto ho sempre desiderato. Da aspirante psicologo tante volte ho studiato sui libri come il benessere sia un fatto relazionale, ma in missione l’ho vissuto, ed è stato completamente diverso.
Fondare la propria vita sull’amore per gli altri: sembra una sfida, o meglio un azzardo. Il fascino del bene mi piace chiamarla questa “sfida”. C’è chi sa portare avanti una vita autentica, anche se spesso questa vita non è riconosciuta o calpestata. E io ho avuto la fortuna di assaporarla.
L’insegnamento più grande che questa esperienza mi ha lasciato è che nella vita bisogna sporcarsi le mani, andare contro corrente secondo le leggi dell’amore, e spero di continuare su questo sentiero sabbioso a cui prima accennavo, perché io mi sento come loro, come i bimbi di Butahara, con le mani e i piedi sporchi di fango.
* 22 anni, studente della facoltà di Psicologia – sede di Milano