“Non esistono supereroi, ogni essere umano può fare la sua scelta”. È questa la frase più volte ripetuta nell’incontro ‘Ricordare e testimoniare il bene’ all’università Cattolica in occasione della Giornata dei Giusti dell’umanità.
Una giornata, quella del 6 marzo, per la quale si è fortemente battuta Milena Santerini, docente di Pedagogia dell’Università Cattolica, nonché prima firmataria della Legge 212/2017 che l’ha istituita. Questa giornata testimonia l’esistenza e la forza del bene che risulta fondamentale nella costruzione di una società civile: «I Giusti ci danno speranza, ci chiamano alla resistenza - ha ricordato la professoressa - ed è proprio dai loro atti di coraggio che i giovani devono ripartire, perché solo ascoltando le loro storie potranno crescere e provare a reagire al male. Molto spesso i ragazzi si fanno schiacciare dal mondo. Questa dovrà essere una memoria liberante».
Il tema della resistenza e della reazione è stato ripreso più volte anche dal fondatore e presidente di Gariwo, la foresta dei Giusti, Gabriele Nissim, definendo l’immobilità e l’indifferenza, uno dei mali più infimi che l’essere umano possa esprimere. «Ognuno di noi è un soggetto attivo, e in quanto tale, può sempre compiere una scelta di rottura, liberando gli oppressi dal giogo del male. I Giusti sono come tutti noi, non sono supereroi, hanno solo avuto la forza di pensare con la propria testa, di non farsi trascinare dall’odio e dalla miseria».
«Oggi sembra tornato l’odio, quello che pensavamo aver rinchiuso nei libri di scuola. Oggi rivedo quella disumanizzazione che, non molto tempo fa, portò alla creazione di ghetti o alla costruzione di barricate. Noi abbiamo la responsabilità di rompere i meccanismi del male, finché ne abbiamo la possibilità».
Durante l’incontro hanno fatto sentire la propria voce quelle persone che videro con i propri occhi le azioni dei Giusti e che, grazie a queste, sono riuscite a testimoniare gli orrori subiti.
Eugène Muhire Rwigilira ha voluto ricordare il genocidio del Rwanda (1994) avvenuto in soli tre mesi e costato la vita a 1 milione e 74 mila persone. «Hutu e Tutsi vivevano insieme, come fratelli. Ma la propaganda li ha spezzati, ha convinto i primi a credere che i secondi non avessero alcun diritto di calpestare la loro stessa terra. Noi Tutsi venivamo considerati come scarafaggi o come piante, che se cresciute troppo in alto potevano essere pericolose, e per questo motivo ci gambizzavano».
«La mia famiglia – prosegue - non fu risparmiata come quella di mio padre e di mia madre. Ma oggi io sono qua, perché ci sono state delle persone che si sono opposte, che hanno detto no al male. A queste persone, come il nostro vicino che ci nascose dalla ronda Hutu o il parroco Mario Falconi che volle rimanere e soffrire con noi, aiutandoci e rincuorandoci, bisogna dire grazie. Grazie di non aver scelto la strada facile della fuga o di non aver creduto alle menzogne della propaganda».
È stata poi la volta di Tho Bovannrith Nguon, testimone del genocidio dei Khmer rossi in Cambogia (1975-79). «Doveva essere solo per poche settimane, ci avevano detto che saremmo rientrati in possesso della nostra casa in poco tempo, e io da bambino ingenuo, pensavo a una sorta di vacanza. Ci dissero di evacuare per paura dei bombardamenti americani. Tutte menzogne. Le settimane divennero mesi e i mesi divennero anni. Un milione di cambogiani sfollati per più di quattro anni.
Dovevamo lavorare nelle risaie notte e giorno; cambiai anche il mio nome per paura di essere associato alla borghesia che i Khmer tanto detestavano. Il mio nome era “Oro splendente”, lo cambiai nel più comune Toh che vuol dire “vaso”. Fucilarono un ragazzo solo perché indossava gli occhiali che per loro era simbolo di ricchezza, quel cambio di nome fu per me una benedizione.
Ma in tutto questo odio ci fu un giovane soldato Khmer che mi salvò la vita, donandomi alcuni antibiotici senza i quali sarei sicuramente morto. Anche nel profondo del male dell’essere umano, c’è chi può sempre fare la sua scelta nel nome del bene».