di Laura Zanfrini *
Ancora una volta il mondo si dichiara commosso e addolorato di fronte alla fotografia dell’ennesimo cucciolo d’uomo morto tragicamente lungo il tragitto verso la sua “terra promessa”.
Insieme alle tante altre icone che per un momento sembrano squarciare il velo dell’indifferenza globalizzata, alle immagini dei neonati annegati nel Mediterraneo, a quelli dei bambini rinchiusi nelle gabbie lungo il confine tra le due Americhe, a quelli dei piccoli internati nei campi profughi del Terzo Mondo (in cui molti di loro hanno vissuto fin dal primo giorno di vita), la piccola Angie tenta vanamente di richiamare la comunità internazionale alle proprie responsabilità.
La responsabilità certamente di ridisegnare il governo della mobilità umana, le politiche migratorie, i sistemi di protezione, gli schemi che rendano davvero possibile la migrazione sicura e legale. Ma, prima ancora, la responsabilità di dare concretezza al “diritto a non emigrare”, rispondendo alle istanze di protezione e giustizia rese via via più impellenti dalla crescita delle interdipendenze globali e che nessuna politica migratoria, per quanto “generosa”, sarà mai in grado da sola di soddisfare.
La carovana che marcia ostinatamente verso un muro sempre più invalicabile è proprio la rappresentazione plastica di un fallimento globale, quanto lo è il corpicino senza vita della piccola Angie avvolta nella maglietta del suo giovane papà.
E tuttavia, in questo momento, è proprio a questo giovane papà, travolto dalle acque violente del Rio Grande e insieme dalla consapevolezza di non essere riuscito a portare in salvo la sua bambina, che va il mio pensiero. Perché questo giovane papà è, suo malgrado, il rappresentante dei tanti padri della migrazione globale che pagano un prezzo molto alto, sebbene spesso sottovalutato.
Una letteratura sociologica di impronta femminista spesso indugia a descrivere mariti e padri della migrazione come coloro che più facilmente si dimenticano dei loro doveri familiari, o che addirittura disperdono in alcol e prostitute i risparmi faticosamente inviati dalle moglie migranti; la ricerca militante denuncia le pesanti conseguenze della migrazione femminile sul benessere della famiglia e dei figli, sorvolando sui costi della solitudine dei padri e della loro lontananza da casa; le madri migranti che tessono legami tra culture e generazioni sono non di rado contrapposte allo stereotipo del “padre padrone” che limita la libertà di mogli e figlie; perfino la narrativa “pro-immigrati” si preoccupa di sottolineare la prevalenza della componente femminile tra la popolazione immigrata, nell’intento di rassicurare l’opinione pubblica (quasi dando per scontato che le donne siano preferibili agli uomini).
Il papà della piccola Angie, col suo ultimo disperato tentativo di proteggerla tenendola stretta nella sua maglietta, ci ricorda gli sforzi, la sofferenza e il dolore dei tanti padri della migrazione che sognano, al pari delle madri, di riuscire a offrire ai propri figli una vita migliore della loro.
* docente di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica