L’opera di Samuel Beckett (1906-1989) realizza nel suo complesso, con potente concentrazione metaforica e severa sobrietà di mezzi espressivi, un’immagine profondamente pessimistica della condizione dell’uomo nell’odierna civiltà. Favorito dal suo bilinguismo, Beckett ha creato uno stile essenziale, privo di qualsiasi compiacimento, attraversato da lampi di tragico umorismo che colpiscono personaggi privi di psicologia in una condizione di soglia tra realtà ed assurdità. L’alterazione dei canoni teatrali classici e la nascita del cosiddetto Teatro dell’Assurdo rappresentano l’esito artistico di quella profonda crisi di senso che l’uomo del Novecento ha vissuto a causa di una confusa ed insicura Weltanschauung. Cos’è l’esistere? Ha un senso il nostro vivere? Domande tremendamente pesanti quelle che Beckett pone e che restano irrisolte in modo da far vivere allo spettatore la terrificante esperienza di uscire da teatro completamente libero, ma altrettanto incerto e smarrito. Così è stata caratterizzata l’opera En Attendant Godot (1952) di Samuel Beckett durante il quarto incontro della serie Teatro 2010, tenuto giovedì 18 novembre da Marisa Verna, docente di Letteratura francese presso l’Università Cattolica di Milano. Nella medesima circostanza, l’attore Sergio Mascherpa ha proposto l’interpretazione di alcune scene significative di questa pièce.
Quest’opera non presenta alcuna discrasia tra fabula ed intreccio; ciò deriva principalmente dall’assoluto dominio della parola sull’azione, sebbene il linguaggio – definito da Beckett una “tecnologia rotta” inadatta a veicolare il senso di un pensiero – non funzioni più e consista oramai in un frenetico balbettio che lascia inevase questioni esistenziali. Accanto ad un albero rinsecchito in una strada deserta, i due vagabondi Vladimir ed Estragon attendono un misterioso personaggio, che essi nominano Godot, ma non sanno né l’ora né il luogo dell’appuntamento con lui e, soprattutto, non sanno cosa fare durante l’attesa. Ad un tratto compare il vecchio Lucky, sovraccarico di bagagli e tenuto al guinzaglio dal suo padrone Pozzo che vuole venderlo al mercato. Più tardi sopraggiunge un ragazzo ad annunciare che il signor Godot non verrà quella sera, ma l’indomani. Nel secondo atto, che corrisponde al giorno seguente, ricompaiono Vladimir ed Estragon e, successivamente, anche Pozzo e Lucky: il padrone è diventato cieco ed il servo muto. Pozzo vorrebbe sapere con precisione l’ora ed il luogo attuali, ma non riceve alcuna risposta. Di nuovo ricompare il giovane messaggero per informare i vagabondi: Godot non verrà neppure questa sera, ma verrà certamente domani. Il sipario cala su Vladimir ed Estragon che, immobili, attendono ancora, ma si avverte chiaramente che l’attesa sarà vana l’indomani così come lo sarà sempre.
Il tono di fondo della pièce è assai amaro; ciononostante, in svariate scene è possibile cogliere un tragico umorismo, basato su una pietas comune, che, quale unica forma possibile di catarsi, ci porta a ridere gli uni degli altri per poter sopportare quanto di tragico si cela dietro la nostra esistenza. I protagonisti dell’opera vivono l’attesa come una vera passio, segnata da sofferenza, abbandono, solitudine e dolore che non vengono mai spiegati; nel testo francese ricorrono frequentemente il verbo attendre ed il sostantivo sauveur che comunicano la speranza nell’arrivo di qualcuno che spezzi la monotonia del vivere quotidiano, Godot, la cui identità – da molti critici interpretata come un riferimento a Dio – è ignota a chiunque, Beckett incluso. L’immagine dell’attente, che solitamente non rientra nelle tipiche dinamiche teatrali, può essere paragonata a quella che nell’Antico Testamento vede protagonista il popolo ebraico in attesa della liberazione, mentre il Nuovo esorta ad aspettare l’arrivo del Messia; è lecito istituire questo riferimento poiché la Bibbia – accanto agli scritti di Meister Eckhart, Dante Alighieri, Giovanni della Croce, Arthur Schopenhauer – fu per Beckett fonte di ispirazione e di aspirazione, anche se nelle sue opere non è mai assunta come parola di salvezza, ma solo come motivo di speranza. Attendere richiede necessariamente tempo: in En Attendant Godot, la dimensione temporale – definibile come forma di entropia – è sospesa, eterna, priva di coordinate contingenti, soggetta al calcolo individuale dei protagonisti che non ne hanno una cognizione oggettiva. Nessuno può dire se il presunto tempo della salvezza sia già giunto o se debba ancora venire; passer le temps è l’unica preoccupazione dei caratteri in scena che, diversamente dalla tradizione teatrale classica, sono statici ed inamovibili. Anche la spazialità è assai relativa ed indistinta; lo spazio scenico è però ben delimitato dagli attori che aspirano al cielo in un contesto ben circoscritto, unico pezzo di mondo in cui forse è sensato interpretare quella parte.
I quattro soggetti non hanno né una propria psicologia ben definita né una storia personale; sebbene non sia possibile entrare in loro per un’indagine mentale, ci si può comunque identificare con loro e qui – come ha sottolineato la relatrice – risiede la grandezza dell’opera. I ruoli del doppio all’interno delle due coppie di protagonisti sono interscambiabili; nel caso di Pozzo e Lucky, la relazione padrone-schiavo si ribalta completamente, così come si intrecciano anche le parti di Estragon e Vladimir. Le loro parole interagiscono con una precisissima gestualità – indicata in modo puntuale da Beckett – che, anche se spesso risulta sfasata, contribuisce alla costruzione di un senso che il linguaggio vanificato, ormai logoro e consumato, da solo non può più formare. Per questo motivo quando il dire è insufficiente, parlano i silenzi che, come in una confusa partitura teatrale, si insinuano carichi di un senso profondo nell’assordante nonsense delle parole umane. L’intera riflessione di Beckett poggia infatti sulla ricerca di un senso; “grande sapienza, grande tormento”, così si legge nel Libro del Qoelet e così possiamo diagnosticare la crisi dell’uomo moderno che, una volta persa la fiducia nelle filosofie umane, nelle credenze scientifiche e nelle religioni positive, non ha più “rien à faire” se non demistificare la tragedia della sua esistenza con un’amarissima allegria che, grazie al riso della compassione, gli svela un senso proprio quando si sforza di negarlo. Nelle Confessioni Sant’Agostino scrive “trovi un senso chi può”: probabilmente questa è anche la confessione che Beckett ci fa nelle sue opere che, a ben guardare, tanto assurde non sono poiché anche noi, come i suoi protagonisti, in qualche modo “aspettiamo che venga Godot”.