Ci sono tanti ragazzi oggi che studiano editoria e sognano di lavorare nel mondo della cultura, dei libri. C’era una volta un ragazzo che a 20 anni iniziò come correttore di bozze al Mulino, a Bologna, e poi ne divenne direttore. Aveva parallelamente una spiccata vocazione per la scrittura e il giornalismo e presto divenne collaboratore di testate come il Resto del Carlino, Il Messaggero, La Stampa, Il Sole 24 ore, La Repubblica, L'Espresso. Questo ragazzo si chiamava Edmondo Berselli.
L’Università Cattolica il 14 maggio (Aula Negri da Oleggio, h. 11.30) omaggia lo scrittore e giornalista scomparso nel 2010 con gli interventi di Marzia Barbieri Berselli, Ilvo Diamanti, Aldo Grasso, Lorenzo Ornaghi e Damiano Palano. Un incontro per raccontare chi era questo «intellettuale per vocazione e per moralità, protagonista della cultura italiana refrattario a qualsiasi genere di albero genealogico con cui nobilitare la propria presenza e sotto le cui fronde ripararsi secondo necessità o convenienza», come scrive Ornaghi nella prefazione al libro, al centro del dibattito, Meglio stare a casa (Vita e Pensiero) a cura di Roberto Righetto, che raccoglie gli articoli o interventi pensati e scritti, fra il 2003 e il 2008, per la rivista «Vita e Pensiero».
Nella postfazione Aldo Grasso scrive: «Il rammarico più grande per la scomparsa di Edmondo Berselli è che con lui se n’è andata una figura molto rara nel panorama culturale italiano, un intellettuale capace di raffinate e rigorose analisi politologiche e insieme di vertiginose disquisizioni». Una scrittura coinvolgente e in grado di far vibrare le corde più alta della cultura, che possono però suonare familiari come un ritornello popolare.
Lo si può intuire anche solo leggendo un piccolo estratto dal volume, tratto dall’articolo di Berselli L’industria culturale e il rischio della diserzione.
«A me l’industria culturale piace. O non dispiace a priori, come si usa dire per non essere apodittici. Ho studiato Adorno, a suo tempo, e sarei ancora in grado di applicare le sue categorie hegelo-marxiste, come si diceva allora, alla cultura di massa, comprendendo benissimo le ragioni, anzi la ‘ratio’, dei giudizi horror del maestro francofortese sulla produzione culturale del capitalismo avanzato. Sicché sarei disposto ad accettare anche le opinioni più apocalittiche sull’industria culturale, sui suoi protagonisti e i suoi esiti, rilevando però che si comincia con Adorno e si può anche concludere con Battiato, «minima immoralia, minima immora...», in Bandiera bianca (nell’album La voce del padrone).
Se osserviamo i vertici delle charts librarie negli ultimi mesi, ci si può sbizzarrire volentieri nel cercare le cuspidi del trash, volontario o involontario che sia, e magari rabbrividire. L’Iliade riscritta e semplificata da Alessandro Baricco, il secondo romanzo hard boiled di Giorgio Faletti, l’ultimo sicil-noir di Andrea Camilleri. Eccetera. Nessun moralismo. Baricco non fa letteratura, produce letterarietà. Faletti è un caso di successo comprensibile. Comprensibile perché si applica, come dicevano le professoresse, e, come dice Antonio D’Orrico, scrive con la grafia giusta le marche delle auto e degli orologi, scegliendoli appropriatamente in base alle caratteristiche dei personaggi. E Camilleri solletica quel pubblico che ama una Sicilia in bozzetto, e si compiace di leggere «spiò» e «taliò», magari ricordando un weekend a Palermo.
Ma ho anche visto cose che noi umani facciamo fatica a interpretare: ad esempio, nel settembre scorso, lo straordinario successo di Massimo Cacciari al Festival Filosofia di Modena, con quattromila professoresse giunte in pullman da ogni parte d’Italia, che prendevano appunti e guardavano adoranti il filosofo. (L’anno prima, idem il successo di Umberto Galimberti, che ha inflitto al pubblico soprattutto femminile raccolto in Piazza Grande, sotto la Ghirlandina, considerazioni squisite sul fatto che non siamo soltanto «funzionari della specie», e che in questo momento il nostro compito consiste nel tornare a «pensare greco». Vivissimi applausi delle professoresse).
Allora, voglio dire che anch’io so benissimo che il numero, nella cultura, non è potenza. Eppure, eppure. Eppure non sarei così convinto che l’antidoto al consumo di massa e ai suoi feticismi consista nelle nicchie più o meno privilegiate, più o meno silenziose. Tutto sommato, resto affezionato all’idea che in quell’universo di «comunicazione, intrattenimento, spettacolo» che Alfonso Berardinelli vede come flusso e sintesi magmatica della cultura contemporanea di consumo, ci siano delle distinzioni da operare, materiali da ‘processare’, categorie da applicare, generi da interpretare. Fare di tutta l’erba un fruscio, un rumore di fondo, non mi sembra così conveniente, e neanche efficace. Resto anche convinto che il pubblico, quando determina i grandi numeri, gli effetti slavina, i casi Titanic, non sbaglia mai, o pochissimo».