Vir bonus dicendi peritus: basterebbe questa locuzione latina a riassumere l’essenza dei personaggi positivi creati da Carlo Goldoni, nelle cui commedie compaiono uomini di valore dalle diverse qualità morali che allo stesso tempo dimostrano di essere esperti oratori dotati di una solida perizia linguistica. Il linguaggio diviene lo strumento più adatto per affermare le posizioni morali di una società che, riflessa e riversata sul palcoscenico, ritrova sé stessa. Proprio l’interessante rapporto tra lingua e morale borghese all’interno della commedia La Bottega del Caffè di Carlo Goldoni è stato oggetto di analisi e di approfondimento da parte di Maria Teresa Girardi, docente di Letteratura italiana dell’ateneo, che, giovedì 28 ottobre, ha aperto il ciclo di conferenze “Teatro 2010” alla presenza della coordinatrice scientifica del progetto Lucia Mor, del direttore del CTB Angelo Pastore e di un caloroso pubblico che nell’Aula Magna dell’ateneo bresciano ha potuto gustare l’interpretazione di alcuni estratti della commedia dalla voce di Piero Domenicaccio.
La Bottega del Caffè (1750) è la terza delle sedici commedie nuove che Carlo Goldoni (1707-1793) compose per la stagione teatrale 1750-1751. Quest’opera racchiude in sé tutte le linee direttrici della riforma del teatro goldoniano che esula dalle stereotipate forme della commedia dell’arte: l’abbandono di maschere e di canovacci improvvisati, il ripudio di un caotico susseguirsi di vicende disordinate, il rifiuto di un linguaggio troppo fiorito e artificioso, sboccato e incline alla volgarità, e l’osservanza di un’organicità compositiva di chiara matrice aristotelico-oraziana costituiscono i capisaldi di tale innovazione teatrale. Le commedie, che devono essere trasposizioni sceniche di tipiche dinamiche sociali, presentano personaggi veri e realistici, estratti dal mare magnum della natura umana e caratterizzati da un’universalità descrittiva che consenta a ogni spettatore di ritrovarsi e di identificarsi in loro. Se ciò che è rappresentato deve acquisire credibilità, bisogna – almeno in parte - che il pubblico possa riconoscersi in quei personaggi-specchio che svolgono un ruolo didattico-didascalico, atto a educare la collettività a una più consapevole capacità critica di giudizio verso il singolo e la società intera. Il pubblico è pertanto coinvolto da interrogative retoriche alla base delle quali vi è la condivisione di idee da parte di una società che vive di quei valori proclamati e incarnati dai caratteri goldoniani. Al centro dell’attenzione vi è l’uomo in relazione con i suoi concittadini che deve considerare gli effetti delle sue scelte personali sul vivere civile. L’intento morale consiste nel miglioramento dei costumi che passa attraverso un’inevitabile idealizzazione della bottega di caffè, il luogo più rappresentativo della Venezia settecentesca, in cui Goldoni riesce a mettere in scena il massimo della socialità nel minimo spazio. La bottega – che potrebbe essere considerata la protagonista principale della commedia – è descritta sia quale esercizio commerciale che come punto di aggregazione e di ameno intrattenimento in cui l’unità di luogo viene completamente rispettata secondo parametri di ambientazione simmetrica; in questo polo sociale nasce, si snoda e si conclude l’intera vicenda con la finale ricomposizione unitaria del mondo valoriale borghese.
I tre atti della commedia sono permeati di un tono di urbana conversazione che fa da sfondo ai vizi sociali della borghesia settecentesca. La relatrice si è soffermata sulle caratteristiche retorico-stilistiche dei protagonisti principali: il personaggio positivo di Ridolfo assurge a filosofo morale, pedagogo e maestro di vita, fornendo confessioni autobiografiche di valore esemplare e ammaestrando con massime sentenziose di notevole carica suasoria. Per rendere più fruibile e concreto il suo messaggio, Ridolfo ricorre a espressioni proverbiali, detti popolari e luoghi comuni che lo spettatore deve intendere metaforicamente (si pensi a battute quali “la gola è un vizio che non finisce mai” o ancora “pelar la quaglia senza farla gridare”). La sapienza linguistica di Goldoni – che si rivela anche nella scelta di adottare un lessico commerciale specifico al fine di rendere ancor più veridica la scena – gli consente di veicolare per bocca dei suoi caratteri i valori propri della borghesia del XVIII secolo, tra i quali la ricerca del benessere economico, la salvaguardia del patrimonio di famiglia e la tutela della propria reputazione. Il sano attaccamento alla ricchezza virtuosamente guadagnata risulta essere positivo poiché è indice di industriosità, intraprendenza e laboriosità del commerciante borghese; il valore unanimemente conclamato più tipico dell’epoca è senza dubbio la rispettabilità sociale che si ottiene mediante la difesa dell’onore, concetto reso nel testo da sostantivi appartenenti a quest’area semantica, quali fama, nome, reputazione e credito. Dalla buona reputazione di una persona deriva la sua credibilità sulla quale si basano anche i suoi rapporti interpersonali. Per alterare l’equilibrio sociale è necessaria quindi la presenza di una persona che discrediti quelli che si sono guadagnati un nome e che li descriva per quelli che non sono. Ne La Bottega del Caffè quest’azione disgregante spetta alla figura negativa di don Marzio, seminatore di zizzania presentato come “quel che non tace mai e vuol sempre aver ragione”, descrizione che tinge di arroganza le due facoltà umane più importanti e distintive, ossia la parola e la ragione.
Attraverso il personaggio di don Marzio, Goldoni elabora una riflessione sul metodo della conoscenza e sul potere del linguaggio; pare che la prevaricazione e la sopraffazione - anche solo verbali - siano l’unica via di comunicazione dei propri pensieri e della propria importanza. Assente in questo carattere è la dimensione del dubbio dal momento che ritiene di avere una visione del mondo infallibile e incontrastabile; la miopia da cui è affetto don Marzio è sintomatica della sua cecità morale che gli procura una percezione distorta della realtà e allo stesso modo gli occhiali che porta non migliorano le capacità visive, ma fungono da lenti deformanti. A causa di questo disturbo don Marzio stravolge l’uso della parola tanto da essere definito “il maldicente”; il male non consiste nel modo di esprimersi, bensì nel contenuto del suo linguaggio che, senza rispettare la corrispondenza tra verba e res, non è veritiero. Sia Ridolfo che don Marzio sono abilissimi retori; il primo è foriero di verità, il secondo mendace. Analizzando queste due figure si può cogliere come al buon uso della ragione corrisponda il buon uso del linguaggio; è per questo motivo che al termine della commedia Ridolfo vince sulle parole di don Marzio poiché queste non sono supportate da un altrettanto valido uso della ragione. “La mia lingua, o presto o tardi, mi doveva condurre a qualche gran precipizio”: con queste parole il maldicente ammette di essere caduto nel precipizio dell’infamia, “il peggiore de’ mali”, che gli ha tolto il credito, condizione necessaria per restare in un paese in cui “tutti vivono bene, tutti godono la libertà, la pace, il divertimento, quando sanno essere prudenti, cauti ed onorati”.