«Sapete che cosa mi ha colpito delle città italiane? Le persone che camminano liberamente nelle strade. È un senso di felicità che in Afghanistan non possiamo ancora provare. Ma ci arriveremo». Lasciano sbalorditi le parole di Rahima Housaini, giovane cooperante afghana impegnata sul fronte dei diritti civili, oltre che membro dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro le droghe e il crimine. Rahima racconta la sua storia e le sue sfide nelle aule della Cattolica, nell’incontro Il volto giovane dell’Afghanistan, coordinato dal professor Marco Lombardi del dipartimento di Sociologia e dal Consolato Usa a Milano. Le racconta insieme ai colleghi Wazir Ahmad, responsabile del Civil Society Human Rights Network, e Jawed Nader, collaboratore del Ministero dell’Agricoltura afghano. Tutti e tre collaborano con i progetti che il Centro d'ateneo per la solidarietà internazionale (Cesi) sostiene nel loro Paese.
Vite segnate dalle guerre e dal regime talebano, le loro. «Era il mio secondo giorno di scuola quando la mia famiglia decise di scappare dall’Afghanistan – racconta Jawed Nader –. Nella metà degli anni ’80 il mondo parlava di guerra fredda, ma da noi era del tutto calda. Ci rifugiammo in Pakistan, e lì conobbi la dura vita del profugo». La storia di Rahima è la stessa. Anche lei afghana, ma costretta a vivere altrove. Entrambi, raccontano, ebbero poi la tentazione di cercare un futuro in Europa, in cui vedevano opportunità che erano loro precluse.
A negare speranze ai giovani era soprattutto l’Afghanistan, dove al potere, nel frattempo, erano saliti i talebani. È Wazir Ahmad a parlare della vita in quegli anni: «Le donne erano obbligate a portare il burqa; non potevano uscire da sole, neanche se incinte e malate; le auto non potevano viaggiare liberamente; non c’erano regolari elezioni, matrimoni liberi, istruzione, eventi sportivi o culturali». Poi tutto cambiò: la cesura che segnò la rinascita dell’Afghanistan fu quella che sconvolse il mondo, quella dell’11 settembre 2001. Lo spiega Jawed Nader: «Fu una notizia terrificante, ma anche il giorno in cui tutti si accorsero di noi, aprirono gli occhi su un Paese in mano ai terroristi e iniziarono a combatterli».
Fu allora, con l’abbattimento del regime talebano, che Jawed, Wazir e Rahima decisero di tornare in Afghanistan. La speranza di cambiare il loro Paese li attirava ormai più di una vita diversa in Europa. «Oggi il mio Paese non è più, o almeno non solo guerra, sparatorie, terrore. Si porta ancora il burqa, ma solo per scelta e tradizione, c’è libertà, c’è la moda. Ma soprattutto c’è istruzione, anche universitaria: le cose stanno cambiando perché la gente, più colta, conosce i propri diritti».
Ed è in nome di quei diritti che lavorano oggi i tre cooperanti. Ostacolando il mercato delle droghe, che ammazza i ragazzi e arricchisce i talebani, ancora forti nelle zone rurali; migliorando le condizioni nelle carceri, soprattutto quelle femminili, «dove le donne scontano anni anche solo per aver cercato l’indipendenza dal padre o il marito», spiega Rahima; mediando con le istituzioni, per la promulgazione di leggi che tutelino i diritti umani, dato che, come racconta Wazir, «gli abusi, la corruzione, i crimini contro l’umanità come il traffico di uomini sono problemi ancora attuali, ma si stanno facendo passi in avanti»; e, infine, sviluppando il sistema scolastico e la capacità critica degli studenti, perché si impegnino nel sociale e in politica.
Jawed, Wazir e Rahima lavorano con un sogno e un ringraziamento. Il grazie è per gli aiuti internazionali, quelli militari e quelli civili, che giudicano «necessari». Il sogno è quello di vedere un Afghanistan diverso, indipendente, pacifico. Un Afghanistan «pari ai Paesi più sviluppati del mondo».