di Giuseppe Lupo *
È tramontata ormai da tempo l’epoca in cui scrittori e artisti godevano della fiducia delle aziende e in esse trovavano l’occasione per esprimere il loro talento. Ma se è vero che la letteratura è lo specchio di una stagione, mai come ora il panorama delle tendenze narrative emerse con il cambio di secolo propone un’intensa campionatura di generazioni precarie, di progetti incompiuti, di mestieri temporanei.
Tutto ciò identifica le scritture del tempo presente, l’età dell’incertezza o dell’insicurezza (secondo Zygmunt Bauman e Pierre Bordieu) in cui la crisi dell’economia viene interpretata quale eclisse di una società fondata sull’idea del posto fisso. Siamo in una fase di transizione, ognuno di noi è, per antonomasia, un homo instabilis e gran parte di questa provvisorietà si accumula in quelle forme di narrazioni contaminate - veri e propri miscugli di autobiografia, diario, reportage, documento, fiction, inchieste - che sono i libri ispirati al tema del lavoro (o del post-lavoro, forse si dovrebbe dire) e pubblicati negli ultimi anni.
Probabilmente è ancora troppo presto per annunciare la nascita di un nuovo genere. Di sicuro, però, possiamo osservare una tendenza che va assumendo proporzioni macroscopiche e, dal punto di vista dell’esemplarità, impostata sull’alienazione figlia del call center anziché della catena di montaggio. Ciò che interessa comporre è il quadro di un’età in cui la deindustrializzazione induce a marcare la morte della fabbrica e della classe operaia, almeno nei termini di una certa tradizione, e a concentrarsi soprattutto su due fattori abbastanza comuni: la narrazione del lavoro come occasione di morte o come descrizione di una geografia consegnata all’immagine dell’abbandono e della ruggine.
Gli autori tra i più rappresentativi di questo filone (da Silvia Avallone a Giorgio Falco, da Angelo Ferracuti a Massimo Lolli, da Michela Murgia a Marco Rovelli, solo per citarne alcuni) sono tenuti insieme da un’idea di scrittura che denuncia un’esasperata fame di realtà, che insegue ossessivamente le traiettorie della cronaca e fa suo il tentativo di recuperare i segni di un impegno morale.
È legittimo domandarsi se davvero, di fronte a queste opere, non stiamo percorrendo i sentieri di un neo-neorealismo o se piuttosto non siamo approdati alla spiaggia di un realismo post-moderno. Le formule sono provvisorie e valgono relativamente in un mondo liquido. Al di là della moda editoriale e forse anche di un certo compiacimento estetico che conosce i limiti delle operazioni di maniera, gli scrittori in azione in questi anni amplificano i problemi che tocchiamo tutti i giorni nel quotidiano e ci ricordano, per esempio, che la condizione operaia è un enigma ancora irrisolto, ci dicono che l’industria non è morta, ha soltanto modificato il suo codice e la maniera di rapportarsi per vie mediatiche con noi.
In fabbrica oggi si lavora, si soffre, ci si ammala e si muore; e solo morendo si esce dalla condizione di invisibilità. Sarà anche vero che molte delle opere di questi autori stentano a varcare la soglia della denuncia e si pongono a testimonianza di un vissuto, ma è attraverso queste pagine che transita il lessico della contemporaneità e l’intellettuale cerca di ridiventare coscienza critica del tempo in cui gli è toccato vivere.
* docente di Letteratura contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, Università Cattolica