E alla fine sono arrivati gli ultimi due episodi di Lost. In Italia, la sveglia segnava le 6 del mattino quando Fox ha irradiato via Sky, in contemporanea planetaria, le ultimissime sequenze dei superstiti isolati. Al mattino, davanti al borbottio di una macchinetta del caffè, un collega mostrava gli occhi gonfi di chi, sveglio dall’alba, ha seguito l’epilogo fino all’ultima scena. «Non è solo il sonno – mi confida – lo ammetto a patto che tu non lo dica in giro: ho pianto, da solo, al buio, sul divano». Non è stato l’unico. Anche la proiezione riservata agli studenti della Cattolica, nell’aula Lazzati di largo Gemelli, ha suscitato reazioni commosse.
L’introduzione di Aldo Grasso è breve: la pazienza di chi aspetta religiosamente da 6 anni le ultime immagini del serial, che secondo gli esperti ha rivoluzionato il concetto di fiction tv, merita il massimo riguardo. «Lost rappresenta una svolta sostanziale della narrativa televisiva – spiega il docente di Storia della radio e della televisione – l’autorialità è entrata senza timori reverenziali in tv, mostrando tutto il suo coraggio». Nel caso di Lost, autorialità significa mettere in scena temi generalmente considerati troppo complessi dagli stati maggiori del tubo catodico. Per Grasso, il prodotto, che ha perfino dettato il ritmo delle conferenza stampa del presidente Barack Obama, rigenera il topos millenario del naufragio, e disserta di sopravvivenza, lutto e rinascita, utilizzando un efficace dispositivo di narrazione.
In aula, i volti illuminati dalle immagini che scorrono sui due maxischermi sono attentissimi. Disturbare lo spettatore vicino nel caso in cui “sfugga” il senso di alcuni passaggi si dimostra severamente vietato. Per chi non ha perso neppure un istante delle 121 puntate precedenti, l’intricato dedalo di flashback, flashforward e flashpresent, compone un irresistibile climax destinato fisiologicamente alle lacrime. Per gli altri, la sequenza cult rimane quella in cui un protagonista particolarmente ingenuo, davanti a una bara vuota e al fantasma del padre morto da anni, chiede allo spettro: «Non capisco, tu sei morto, che ci fai qui?», e l’interlocutore: «Che ci fai tu qui», rivelando un finale sospeso fra misticismo e kolossal californiano.
Quando le luci si alzano, il pubblico è silenzioso ma turbato. Uno studente di lettere spiega: «Il segreto di Lost è la suspense. Pone interrogativi infiniti capaci di generare grande curiosità». E la filosofia, i topoi narrativi, il post-moderno? «Secondo me influiscono poco – conclude imboccando la via del chiostro –. In fondo credo che ciò che più di ogni altra cosa ha spinto milioni di persone a guardare con assiduità il serial sia stato voler sapere, ad esempio, cosa fosse, o non fosse, il famigerato fumo nero». Per i profani, una misteriosa nebbia killer il cui senso non viene svelato del tutto neppure all’ultimo secondo dell’ultima puntata.