Il titolo del programma che conduce su Radio 24 dice molto del personaggio: Nessun luogo è lontano. È un po’ la scelta di vita di Giampaolo Musumeci, giornalista freelance specializzato in reportage dall'estero. L'ultimo suo lavoro è dedicato alla regione congolese del nord Kivu, dove ha intervistato alcuni capi ribelli. Un lavoro di cui, il 14 maggio, Musumeci ha voluto presentare in anteprima alcuni spezzoni agli allievi del corso tenuto da Beatrice Nicolini, docente di Storia e istituzioni dell’Africa alla facoltà di Scienze politiche e sociali.
Perché il Congo? Perché come dice un mio amico congolese: «In Congo tutto è possibile e niente è impossibile». È uno dei tanti viaggi che ho fatto ma la situazione di questo Paese mi interessa particolarmente: complessa e poco conosciuta. Nel 2008, quando è scoppiata la ribellione, io e un amico ci siamo decisi ad andare e si è spalancato un mondo ostile ma pieno di storie che ti risucchiano.
Cosa avete documentato? Il nord Kivu è una zona ricchissima di minerali ma anche di tragedie: dai bambini soldato agli stupri di guerra vi si concentrano tutti i mali del Congo. È la regione al mondo con più gruppi armati per chilometro quadrato. Ce ne sono più di quaranta e combattono tutti per la libertà e la democrazia ma se si scende un po' nelle pieghe della realtà, si scopre che tra i ribelli ci sono alcuni ufficiali bravi a motivare le truppe, creando un bassissimo grado di consapevolezza di quello che si fa e del perché lo si fa.
Qual è la situazione adesso? «Se un giorno ci prenderanno a sassate – mi disse il funzionario Onu che mi ha ospitato a Goma – hanno anche ragione. Sono dieci anni che siamo qua e non è cambiato niente». L'Onu segue molti progetti ma il problema è che si disgrega tutto. Si costruisce qualcosa che è destinato a perdersi dopo poco tempo. C'è un'entropia accelerata, non c'è capacità di salvaguardare, di preservare. Si addestra un battaglione e poi lo si sparpaglia. Nove mesi di addestramento con un truppa finalmente organizzata e poi viene dispersa. Si fa una strada e si rompe il mese dopo.
Insomma, va tutto storto? Anche il territorio è ostile al massimo: la foresta mangia tutto, la pioggia è distruttiva e il sole devastante. Goma si trova su un territorio vulcanico e poggia su una pietra lavica molto pericolosa per i mezzi di trasporto comuni. Lo Stato è fermo. Tutto è lentissimo, anche a livello burocratico, non si trova mai nessuno e se non si paga non si ottiene nulla.
Di Congo e dell'intera Africa si sa poco e male: è colpa dei media? Bisogna smetterla con i luoghi comuni che standardizzano una varietà di problemi molto complessi e diversi rendendoli tutti uguali. L'Africa non è un tutt'uno. Troppo spesso l'informazione non riesce a rappresentare la complessità di un continente immenso.
Se cominciassero a parlarne di più? Da utente vorrei leggere di più di esteri e scritto diversamente. Dieci pagine di politica interna mi hanno stufato. Non se ne può più di talk-show tutti uguali. Quando vado in onda con il mio programma su Radio 24, la gente mi contatta e mi dice: “Finalmente si parla di queste tematiche”. C'è una domanda, magari non grandissima, che bisogna però alimentare e bilancerebbero quello che abbiamo sentito dire sul ministro Cécile Kyenge o sulla vicenda del ragazzo che ha ucciso tre persone a picconate a Milano.
È un problema di superficialità, magari solo italiana? Se non si conosce l'Africa, se non si sa che di Congo ce ne sono due, può capitare che qualcuno si permetta di dire a un ministro di tornarsene al proprio Paese. In Francia non succederebbe mai perché c'è una grande cultura degli esteri. Avendo un passato di colonizzazione c'è sempre un giornalista francese inviato sul posto. E quando parlo con uno di loro di Congo sa perfettamente di cosa si parla. E poi la stampa francese produce molti più reportage. Dopo di che ci sono anche molti espatriati nelle ex colonie: Kinshasa e Bamako fanno pur sempre parte dei loro interessi.
E noi italiani, cosa sappiamo nelle nostre ex colonie? Sono stato in Somalia nel 2009 e ho trovato gente che mi parlava in italiano e mi chiedeva perché noi non andassimo mai da quelle parti.