“Peer Gynt” fu pubblicato del 1867 e rispecchia il tipico gusto nordico. L’autore, Henrik Ibsen, era norvegese ed è divenuto celeberrimo per i brani realistici della sua maturità. Si direbbe che sia stato un fondatore di discorsività, che abbia codificato la mitologia moderna, ma in verità il suo Peer Gynt è una sorta di caricatura dell’animo norvegese. Le scorribande fantastiche del personaggio nascondono il ritratto dello spirito umano.
Ospite della conferenza, sempre coordinata da Lucia Mor, è Luca Micheletti, attore, regista e drammaturgo. Ha presentato l’opera, sia nella parte della spiegazione che in quella della lettura. Micheletti è figlio d’arte da ben quattro generazioni, è uno studioso, ha un dottorato in italianistica e ha tradotto opere di grandi autori, da Hugo a García Lorca. Proprio in questa attenzione ai testi più importanti della letteratura, si inserisce il lavoro fatto dallo stesso Micheletti al Teatro dell'Argot di Roma, con il “Rosmersholm” di Ibsen.
L’arco di tempo in cui si sviluppa la storia è l’intera vita umana. Il Peer Gynt di Ibsen si presenta come una versione norvegese del Faust, nonché una rielaborazione di temi fantastici e mitologici. La sua figura è nota nella tradizione norvegese, ripresa dai racconti popolari della regione di Gudbrandsdalen, a loro volta probabilmente ispirati a un personaggio realmente esistito, vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento. In verità, delle sue vicende non si sa nulla. Se da una parte, questa mancanza di dati certi ha reso difficoltosa la stesura del romanzo, dall’altra ha regalato maggiore libertà all’autore. Tuttavia, la tomba di un certo Peer Gynt esiste, benché fosse noto come un fanatico racconta frottole.
La storia che Ibsen narra le difficoltà che l’impresa del cercare e diventare sé stessi comporta. Nel poema esiste dunque un solo grande antagonista: la parte non autentica di sé. A causa di una totale assenza di riconoscimento del mondo esterno, Peer si trova spaesato e l’unico modo di evasione è il sogno ad occhi aperti. Il disordine nella vita è il suo dramma; l’uomo si trova senza capacità di sintesi, in un oblio dai contorni indefiniti che lo porta alla più cieca follia. Una volta rinchiuso in un manicomio del Cairo viene persino incoronato re dell’inautenticità.
Senza distogliere l’attenzione dall’epicità di un testo pieno di magia, l’opera intende collegare con un sottile filo rosso l'Ibsen "fantastico" e l'Ibsen "naturalista": al centro, vi è il tema del fallimento esistenziale come conseguenza della negazione della realtà. Ibsen era un direttore di teatro e, durante la composizione dell’opera, seguì delle precise regole per far avere successo alla sua opera, che, secondo lui, derivava dallo stupore della gente nel vedere la rappresentazione stessa, costituita da un susseguirsi frenetico di personaggi principali e comparse. Nonostante il caos generale, il pubblico doveva solo “spiluccare”, senza che gli si presentasse per forza una composizione organica.
Come già detto in precedenza, nel dramma compaiono le peregrinazioni associate al Faust, con la differenza che Peer sperimenta anche tre modi di non essere sé stesso: l’accumulazione materiale di oro che lo allontana dal sé spirituale, l’amore profano per la bella Anitra e la sapienza terrena quando diviene un pedante intellettuale. Peer Gynt rappresenta l’attraversamento di un incubo, la nevrosi collettiva dell’umanità. Il suo mondo è pieno di pensieri proibiti, di incubi e allucinazioni che lo portano lontano dal suo io e dalla sua identità. L’unico modo per sottrarsi a questa spirale perversa è quello di accettare la propria vulnerabilità e la propria debolezza: solo così è possibile vivere da uomo in mezzo agli uomini.