di Anna Poli *
Le persone che mi sono vicine conoscono bene il mio spirito nomade. Per questo la domanda “Perché sei partita?” non mi è nuova e, anzi, è proprio dalla risposta che vorrei iniziare.
Mi piace pensare ai periodi, brevi o lunghi che siano, che trascorriamo via da casa non come a parentesi di estraneità rispetto al nostro quotidiano, ma piuttosto come a momenti di vita pura e intensissima, momenti in cui l’esistenza gode della sua massima pienezza ed espressione. Viaggiare per me non è “altro”, ma è semplicemente un modo per procedere lungo il mio cammino. Qui e altrove sono un tutt’uno per me.
Ogni viaggio ha un suo significato specifico e unico. Stavolta sono partita innanzitutto per il puro gusto di partire, fare la valigia e andare a curiosare un nuovo angolo di mondo, oltre che per allontanarmi da una situazione dolorosa dalla quale desideravo distanziarmi per un po’. Ma ho deciso di partecipare al bando del Charity Work Program anche per avere la possibilità di imparare qualcosa di nuovo in un ambito che mi interessa molto e in cui sto muovendo i miei primi passi: il cosiddetto “terzo settore”, il mondo della cooperazione internazionale e dello sviluppo. Per questo la mia prima scelta è stata l’India, perché lì, presso l’Ong Bala Vikasa di Warangal, villaggio dell’Andhra Pradesh, ho seguito un corso di formazione della durata di tre settimane in Community Driven Development.
Il percorso, aperto a chiunque graviti negli ambiti dello sviluppo, riunisce persone di provenienze diverse, con background culturali e lavorativi tra i più disparati, ma tutte accomunate dalla propria partecipazione nel terzo settore. E così mi sono ritrovata gomito a gomito con medici dello Sri Lanka, con un ragazzo yemenita che lavora per Save the Children, con un’attivista nepalese che nel suo Paese lotta per dare maggiori diritti, tutela e riconoscimento alle donne. In una classe di ventuno persone provenienti da India, Nepal, Sri Lanka, Nigeria e Yemen eravamo solo due italiane ma, soprattutto, solo due occidentali.
Le lezioni avevano l’obiettivo di darci gli strumenti concreti per comprendere e mettere in atto progetti di sviluppo che, eccetto per il sostegno economico iniziale, siano condotti e sostenuti in modo indipendente dagli individui che ne beneficiano e non da coloro che lavorano nella Ong, charity o associazione benefica di turno. Questo processo, facile a parole ma non nei fatti, deve partire innanzitutto dalla creazione della comunità. Gli abitanti di una determinata area devono acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità come singoli e come gruppo e dei propri punti deboli come società. Da qui e solo da qui può nascere la volontà di partecipare attivamente al proprio sviluppo attraverso un’assunzione di responsabilità da parte di ciascuno.
L’idea alla base di tutto ciò, teorizzata negli approcci chiamati Assets Based Community Development e Appreciative Inquiry, è molto affascinante. Grazie a ciò che ho imparato presso il Bala Vikasa ho avuto nuova ispirazione e stimoli positivi e ho compreso che empatia e creatività sono due caratteristiche fondamentali per far sì che il proprio lavoro produca un reale cambiamento.
Ma la mia esperienza indiana non è stata fatta solo di lezioni e appunti. Ho avuto la possibilità di conoscere persone sensibili e socievoli con le quali ho condiviso lunghissime ore di chiacchiere su qualsiasi argomento, ho conosciuto tradizioni e abitudini di popoli lontani, ho ammirato paesaggi nuovi e assaggiato cibi sconosciuti. Seduta su dei cuscini sotto una tenda avvolta tra mille stoffe colorate, ho trascorso più di mezz’ora a contrattare il prezzo di una sciarpa ricamata sorseggiando masala tea con due ragazzi originari della regione del Kashmir, mi sono fatta tatuare un piede con il tipico menhdi indiano, quello che noi chiamiamo henné, ho indossato un prezioso e splendido sari nepalese rosso per poi farmi scattare mille fotografie, tra una risata e l’altra ho rischiato innumerevoli volte la vita durante le folli corse sugli auto, inimmaginabili e instabili taxi che riempiono le strade indiane. Ho ballato e cantato a più non posso tentando di imitare le abilissime movenze bollywoodiane con scarsi risultati, ho camminato a piedi nudi fino in cima alla collina dove svetta un tempio induista interamente costruito in pietra bianca.
Ho goduto davvero di ogni istante passato in India. Come ho già avuto modo di sperimentare in più situazioni, la ricchezza che si ricava dallo scambio con le altre persone, dagli incontri e dai confronti non ha eguali. Posso confermare ancora una volta che viaggiare non solo apre la mente estendendo il confine dei propri orizzonti, ma allarga anche il cuore rendendoci capaci di maggiore sensibilità, generosità e vicinanza nei confronti di chiunque incontriamo lungo la nostra strada. Per questo motivo partirei di nuovo. Ripartirei ancora ed ancora senza sosta e con qualsiasi destinazione.
* 23 anni, di Brescia, neolaureata nel corso triennale in Scienze linguistiche (Esperto linguistico per le Relazioni Internazionali), sede di Brescia