Perché il Paese asiatico si è sviluppato malgrado la mancata applicazione delle indicazioni delle politiche di sviluppo propugnate dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, cumulativamente note con il nome di “Washington Consensus”? Mentre le istituzioni internazionali negli anni ’90 promuovevano liberalizzazioni veloci, privatizzazioni senza compromessi, e snellimento delle burocrazie per ridurre la corruzione, la Cina si apriva gradualmente e in modo controllato al commercio internazionale, la proprietà privata veniva a poco a poco accettata a fianco della proprietà statale, mentre i burocrati rafforzavano il proprio potere, cogliendo l’opportunità di essere coinvolti, in modo lecito e illecito, nel nuovo business che ha caratterizzato il boom cinese. Inoltre, mentre i Paesi in via di sviluppo venivano invitati all’apertura delle società civili, verso un possibile traguardo di democrazia, la Cina continua ad essere un Paese autoritario, sebbene con crescenti spazi di libertà.
LA CINA HA SEMPLICEMENTE IMPARATO LA LEZIONE DEL CAPITALISMO. La crisi economico-finanziaria mondiale iniziata nel 2007 e non ancora conclusa ha inferto un duro colpo al modello neoliberista del consenso di Washington e ha inevitabilmente creato lo spazio per l’ascesa di “modelli” di successo alternativi, con un forte grado di attrazione per i Paesi in via di sviluppo. Secondo Giuseppe Gabusi, docente di International Political Economy alla sede di Brescia, «non dobbiamo però fare l’errore di sostituire al Washington Consensus un nuovo “Beijing Consensus». Se “la storia conta”, è vero che ogni Paese deve trovare la sua via allo sviluppo, ma è anche vero che la Cina non ha inventato nulla di nuovo, ha semplicemente «appreso la lezione storica del capitalismo»: nella fase di decollo economico, stati e mercati non sono entità separate, poiché gli incentivi di mercato funzionano solo in condizioni politico-economiche pronte a sfruttare le nuove occasioni per produrre, commerciare, realizzare profitti. Nella Cina di Deng Xiaoping la classe dirigente, imperniata sul partito comunista, non ha ostacolato la transizione al mercato perché è stata coinvolta direttamente nella trasformazione economica, traendo diretti benefici.
Oggi la Cina si trova ad affrontare la sfida della sostenibilità dello sviluppo, che ha avuto notevoli costi sociali (in termini di forte disparità di reddito tra le campagne e le città, e tra le province della costa e quelle dell’interno) e ambientali. «Molti economisti - ha ricordato Gabusi - sono pessimisti sulla possibilità di continuare a tenere questi ritmi di sviluppo, mentre i politologi cinesi sono ottimisti sulla “pacifica ascesa” del Paese a un ruolo futuro di potenza globale». Come ha dimostrato la recente inaugurazione dell’Expo a Shanghai, anche gli imprenditori di tutto il mondo vedono nel grande mercato del gigante asiatico una straordinaria opportunità per uscire in fretta dalla crisi.
UN MISTO TRA IRI, ENI, EFIM E PARTECIPAZIONI STATALI. Giorgio Prodi, concentrandosi sulla politica industriale della Repubblica Popolare Cinese, ricorda che ancora oggi l’economia cinese è debole nei settori dell’alta tecnologia e nei settori in cui l’effetto “learning by doing” è importante, mentre sia tradizionalmente forte nei settori in cui il livello tecnologico è medio ma i volumi di produzione sono elevati. In realtà, in un sistema “misto” quale quello cinese le stesse politiche economiche e di attuazione delle leggi e dei regolamenti possono rappresentare degli strumenti di politica industriale, permettendo di orientare ad esempio la localizzazione degli investimenti esteri in Cina e degli investimenti nazionali all’estero, le forniture pubbliche, il grado di innovazione.
Come e da chi è formulata la politica industriale? Sotto il controllo dello State Council (il governo) e quindi del partito, le politiche di questo tipo sono attuate principalmente dalla National Development and Reform Commission (Ndrc) e dalla State-Owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac). Quest’ultima, creata nel 2003, supervisiona e controlla tutte le imprese di stato, soprattutto quelle nei settori considerati “strategici” (difesa, telecomunicazioni, energia, aviazione, cantieristica navale). Secondo Prodi, guardando all’esperienza storica italiana, «la Sasac è un ibrido tra Iri, Eni, Efim e Ministero delle Partecipazioni statali». I dati forniti dal relatore sulle imprese statali sono rilevanti: benché il loro numero sia sceso da 120.000 a metà degli anni ’90 alle attuali 40.000, le aziende di stato (State-Owned Enterprises) rappresentano ancora più del 30% della produzione industriale cinese e più del 70% della capitalizzazione di mercato della borsa di Shanghai, impiegano da 30 a 40 milioni di addetti, e soprattutto forniscono il 20-25% del gettito fiscale del governo centrale. Le imprese di stato sono quindi fondamentali nel contesto politico-economico cinese, e il governo non può permettersi di lasciarle senza direzione, esposte senza protezione alla spietata concorrenza dei colossi dell’industria mondiale. Per questo vengono sostenute direttamente nelle loro attività oligopoliste, a volte anche mantenendo controlli di prezzo, e indirettamente, con la creazione di infrastrutture e l’approvazione di leggi e regolamenti ad hoc. La commistione tra potere ed economia è evidente nella composizione della Sasac, perché ad esempio i 50 top managers sono nominati dal Comitato Centrale del Partito, e fa di quest’organo un meccanismo a metà tra strumento di direzione politica e holding economica che deve ricercare efficienza e profitti. Prodi offre anche uno sguardo alle politiche industriali verticali, soprattutto nel settore automobilistico in Cina, che è caratterizzato da eccesso di capacità e di frammentazione, e necessita pertanto di un forte consolidamento. I produttori cinesi sono ancora poco competitivi sui mercati dei Paesi industrializzati, anche per un problema di qualità, mentre ormai sono degli attori economici mondiali nel campo della componentistica.
L’IMPRENDITORE: UNA STRAORDINARIA OCCASIONE. In questo ambito i cinesi hanno beneficiato dell’apporto della tecnologia e del know-how manageriale delle aziende occidentali, come ricorda Marco Bonometti, presidente del gruppo Omr. Infatti la sua azienda, le Officine meccaniche rezzatesi, è presente in Cina con una fonderia (acquistata) e un impianto produttivo costruito ex-novo molto a sud di Pechino, e attualmente colloca sul mercato domestico il 60% del fatturato di queste due fabbriche. La Omr è un interessante esempio di un’azienda familiare italiana che ha accettato la sfida della globalizzazione, investendo direttamente nei Paesi emergenti da tutti considerati strategici quali il Brasile, l’India e, appunto, la Cina. Il gruppo impiega circa 2.500 dipendenti (500 in Cina), è fornitore ufficiale della scuderia Ferrari, ha recentemente acquisito la fabbrica di Modena di Alcoa, il gigante americano dell’alluminio, ed è pronta a sbarcare negli Stati Uniti, approfittando della novità della presenza Fiat in Chrysler. Parlando del binomio mercato-impresa, Bonometti sottolinea come sia importante guardare ai mercati di questi Paesi come opportunità di crescita, non soltanto come spazi per sfruttare il basso costo della produzione. In Cina, non solo le vendite di automobili sono in continua crescita esponenziale, ma la tecnologia applicata alle auto è sempre più innovativa, anche in termini di efficienza energetica e compatibilità ambientale, considerati i problemi di approvvigionamento energetico e di inquinamento del Paese asiatico. Commentando invece il rapporto tra stato e mercato, Bonometti sottolinea come il sostegno e il supporto delle autorità pubbliche locali agli investimenti stranieri abbia reso possibile la veloce realizzazione dei progetti imprenditoriali.
POLITICA ED ECONOMIA. Se la Cina non rappresenta un nuovo modello, certamente la sua esperienza costringe a ripensare le categorie intellettuali del sapere economico e politico, che abbiamo dato troppo spesso per scontate, e che abbiamo permesso si trasformassero in slogan operativi, utili per condurre battaglie ideologiche e offrire soluzioni facili e semplificate, ma che hanno mostrato negli ultimi tempi tutti i loro limiti. Da questo punto di vista, senz’altro, la Cina ci dà il benvenuto nel XXI secolo.