È sempre più vicino il 15 dicembre 2009. Con questa data scade la possibilità di regolarizzare capitali e patrimoni detenuti all’estero e non dichiarati al 31 dicembre 2008. Altrimenti, è pronta una sanzione raddoppiata, in virtù del decreto 78/2009 dello scorso luglio, il cosiddetto Scudo fiscale: patrimoni e capitali fuori confine da riportare a casa. Li chiamano paradisi: Paesi con regimi fiscali più agevoli ma soprattutto per nulla trasparenti e disponibili a scambiare informazioni sul loro sistema e sui loro contribuenti. Il centro studi in diritto tributario della facoltà di Giurisprudenza dell'Università Cattolica ha affrontato il tema esaminando le "Nuove misure di contrasto ai paradisi fiscali".
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una crescita di risultati rispetto all’evasione fiscale. Lo ricorda Marco Miccinesi, professore ordinario di diritto tributario all’Università Cattolica e direttore del Centro. «Questo è un trend positivo che non è necessariamente ricollegato all’ultimo anno e alla recente riforma – sottolinea – ma è trasversale rispetto alle legislature e dimostra come i governi di ciascuna parte politica abbiano avvertito l’urgenza di porre un margine all’illecito. I successi sono il prodotto sia di interventi normativi sia di una crescita interna dell’amministrazione».
«L’azione dell’amministrazione finanziaria unita a quella politica stanno facendo cadere gli ultimi baluardi rispetto all’“opacità” di questi sistemi - afferma Miccinesi -. Basti pensare al contenzioso con la Svizzera e alla capitolazione del Belgio rispetto agli scambi di informazioni, per capire che l’amministrazione disporrà in tempo reale di dati sui flussi finanziari da e verso l’Italia. I paradisi fiscali non sono solo Paesi con una fiscalità agevolata, ma sono sistemi che non consentono il passaggio di informazioni». Miccinesi ricorda che la competizione fiscale in ambito comunitario è ammessa. Per il principio della libertà di stabilimento, un’impresa può legittimamente insediarsi in uno specifico Paese senza una ragione economica autonoma, ma solo per il beneficio fiscale. In vista dello sviluppo dell’impresa, questo potrebbe anche essere accettato dal Paese d’origine, purché si tratti di una attività effettiva; altro è, invece, impedire l’accesso alle informazioni per conoscere l’effettività dei flussi economici e finanziari, nonché la composizione dell’attività.
Le Bermude, Abu Dabi, Dubai o luoghi molto più vicini a noi come la Svizzera, San Marino o Montecarlo sono i paradisi fiscali da cui il governo si attende il ritorno dei capitali. Queste somme potranno essere rimpatriate o regolarizzate, pagando un’imposta straordinaria del 5%, tramite le banche o altri intermediari finanziari. L’intermediario dovrà poi pagare le tasse compilando una “dichiarazione riservata”, cioè che non sarà trasmessa al fisco. Gli intermediari non sono tenuti ad accertare l'origine lecita dei capitali rientrati.
«La battaglia contro i paradisi fiscali è fondamentale non solo per il recupero di materia imponibile prodotta in Italia e sottratta all’imposizione, ma anche per evitare l’aggravio della crisi finanziaria», sottolinea Rossella Orlandi, direttore aggiunto della direzione centrale Agenzia delle Entrate. Lo scudo come strumento di una politica economica anti crisi è condiviso anche da Miccinesi. «Lo scudo fiscale permetterà, oltre un recupero di gettito significativo, anche un rimpatrio di capitali indispensabili per essere reinvestiti in un momento di crisi – sostiene -. Si immagina che, almeno all’inizio, molti capitali rimarranno statici; altri imprenditori, invece, useranno queste attività per rafforzare la propria attività. Inoltre, i capitali comunque rimpatriati non potranno più tornare all’estero: sono risorse definitivamente ricondotte sul nostro territorio e rese utili alla nostra sfera economica».