Spostare in avanti le frontiere della qualità di vita per le donne colpite da tumore ovarico attraverso terapie sempre più personalizzate, tecniche chirurgiche meno invasive, farmaci meno tossici. Promuovere la diffusione di nuovi standard terapeutici, come la combinazione doxorubicina liposomiale peghilata e carboplatino, che a parità di efficacia con le attuali terapie sono più rispettosi della qualità di vita delle pazienti, riducendo l’impatto di effetti collaterali quali la perdita di capelli o l’alterazione della sensibilità delle mani e dei piedi. Sono le indicazioni che arrivano dalla quindicesima riunione, inaugurata il 9 novembre a Roma, del Gruppo Mito (Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer), un gruppo di ricerca italiano attivo da oltre 10 anni e impegnato a sviluppare collaborazioni di ricerca in ambito di ginecologia oncologica.
Sono oltre 4.000 in Italia ogni anno le donne colpite da tumore ovarico, secondo tumore più diffuso tra quelli ginecologici. A causa del carattere inizialmente asintomatico della malattia, l’80% delle pazienti viene diagnosticata nella fase già avanzata e la mortalità è molto elevata. Grazie al miglioramento delle terapie si è riusciti a portare la sopravvivenza a 5 anni al 30-40%, mentre venti anni fa non superava il 20% dei casi. E per un numero sempre maggiore di pazienti la sopravvivenza può arrivare anche a 8-10 anni. La chemioterapia di prima linea, riesce a ridurre la malattia, anche a farla scomparire nel 50-80% dei casi. Purtroppo, il 60% di queste pazienti recidiva, e ha bisogno di altri trattamenti chemioterapici di seconda linea.
«Il nostro primo obiettivo è ottenere nel maggior numero di casi la cronicizzazione della malattia, attraverso trattamenti chemioterapici multipli, intercalati quando necessario da interventi chirurgici” afferma Sandro Pignata, direttore Uoc Oncologia Medica, Istituto Nazionale Tumori Fondazione G. Pascale, Napoli, presidente Mito Group. «Ma l’altro obiettivo che ci vede impegnati – aggiunge Pignata – è quello di migliorare la qualità di vita delle pazienti fortemente influenzata, oltre che dalla malattia in sé, dagli effetti tossici dei farmaci». Soprattutto in caso di ricaduta, situazione in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, la guarigione dal tumore non può essere raggiunta, l’obiettivo fondamentale del trattamento è quello di permettere alla donna di condurre una vita il più possibile normale.
«Le attuali terapie possono comportare effetti collaterali che vanno a impattare in modo serio sulla vita quotidiana, le relazioni familiari, la capacità lavorativa – afferma Giovanni Scambia, (nella foto), direttore del dipartimento per la Tutela della salute della donna e della vita nascente del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” – aspetti quali la caduta dei capelli o la neurotossicità, ovvero il danno alle fibre nervose periferiche, che si può manifestare con alterazioni della sensibilità delle dita, delle mani, dei piedi, ma anche con alterazioni di tipo motorio, sono problemi drammatici perché condizionano l’immagine che la donna ha di sé e la capacità di interagire con gli altri».
Due recenti studi, Mito-2 e Calypso, il primo dei quali ancora in corso, aprono però la strada ad alternative nella terapia del carcinoma ovarico che vanno in direzione di una migliore qualità di vita e che a parità di efficacia della terapia standard – carboplatino e tassolo – assicurano una significativa riduzione degli effetti collaterali. I due studi si basano sull’impiego di doxorubicina liposomiale peghilata come alternativa a tassolo nella combinazione con carboplatino. Questa combinazione è stata valutata come terapia di prima linea nello studio Mito-2, promosso dal Gruppo Mito, e nel trattamento delle recidive nello studio Calypso, coordinato dal gruppo francese Gineco.
Lo studio Mito ha coinvolto oltre 800 pazienti e si è concluso un anno e mezzo fa; i risultati definitivi non sono ancora disponibili ma i dati finora emersi evidenziano i vantaggi di questa nuova terapia in termini di tossicità, con un impatto molto più ridotto di problemi quali la perdita di capelli e la neurotossicità. Inoltre, la proporzione di pazienti che hanno una risposta al trattamento, con riduzione o scomparsa della malattia, è uguale nei due schemi di trattamento.
Lo studio Calypso invece ha già dato i suoi risultati definitivi, dimostrando che la combinazione di carboplatino e doxorubicina liposomiale peghilata è risultata più efficace in termini di sopravvivenza libera da progressione e la tossicità sensibilmente minore rispetto allo schema classico con carboplatino e tassolo. Il trattamento con doxorubicina liposomiale peghilata e carboplatino, ha addirittura determinato un miglioramento di circa due mesi della sopravvivenza libera da progressione, che era l’obiettivo primario dello studio. Inoltre la nuova combinazione si è dimostrata anche molto meglio tollerata rispetto alla terapia standard: nelle donne trattate con doxorubicina liposomiale peghilata, infatti, sono risultate decisamente meno frequenti l’alopecia (7 contro 84%), la neurotossicità (5 contro 28%) e le reazioni allergiche al carboplatino (5 contro 19%).
«Avere a disposizione un trattamento con un’efficacia pari o superiore alla terapia standard, ma che non fa perdere i capelli, è un passo in avanti enorme – spiega Giovanni Scambia – l’alopecia, spesso poco considerata dal medico, può portare anche a un’interruzione del trattamento: queste pazienti, che hanno subito una ricaduta, devono rifare la terapia, e per la seconda volta vedono cambiare il proprio aspetto, non sono più disposte ad accettare una nuova perdita di capelli».
«Sulla base delle evidenze dei due studi – afferma Sandro Pignata – possiamo ritenere che la combinazione doxorubicina liposomiale peghilata-carboplatino rappresenta una valida alternativa e in un futuro molto prossimo potrebbe addirittura diventare il nuovo standard terapeutico per il trattamento di queste pazienti».