di Damiano Palano *
La Fortuna, diceva Machiavelli, è arbitra solo della metà delle nostre azioni. Ma neppure gli argini più robusti possono mettere davvero al riparo dagli scherzi che riserva il destino. Se l’ammonimento dell’autore del Principe era valido cinque secoli fa, non sembra oggi meno prezioso per i leader politici delle nostre democrazie. Quando poco meno di due mesi fa Theresa May annunciò a sorpresa la fine della legislatura e la decisione di andare a elezioni anticipate, il risultato della consultazione sembrava pressoché scontato. L’azzardo con cui David Cameron aveva indetto il referendum sulla Brexit e, soprattutto, il risultato (in parte) inatteso uscito dalle urne, sembravano infatti avere impresso una svolta netta alla politica britannica.
I conservatori parevano ormai padroni incontrastati della situazione e in grado di capitalizzare i consensi registrati dai sondaggi alla linea della “hard Brexit” portata avanti dal governo May. La nuova linea sembrava soprattutto aver neutralizzato la protesta dello Ukip e ulteriormente disorientato il Labour, diviso al proprio interno sulla questione dell’uscita dalla Ue e sulla stessa direzione impressa al partito da Jeremy Corbyn. Proprio il leader laburista – dipinto dalla stampa e da molti osservatori più o meno come un caratterista uscito da un film di Ken Loach e approdato per errore sul palcoscenico della politica nazionale – era anzi considerato come il principale responsabile della vittoria annunciata dei conservatori.
Dopo una brevissima campagna elettorale, le cose sono andate invece molto diversamente. Non tanto perché i laburisti abbiano ottenuto un successo, quanto perché la previsione di Theresa May si è rivelata sbagliata, e oggi i conservatori si ritrovano alla Camera dei Comuni senza neppure quella maggioranza che, seppur in modo stentato, nel 2015 aveva consentito a David Cameron di liberarsi dall’abbraccio dei liberal-democratici.
La vera sorpresa è venuta però proprio dal Labour di Corbyn, che, pur nel corso di una campagna elettorale così contratta (e peraltro funestata da eventi terroristici), ha ottenuto un risultato sorprendente. Naturalmente sarebbe improprio parlare di un successo, perché, se i laburisti guadagnano circa una trentina di seggi rispetto al 2015, restano molto distanti dai conservatori e soprattutto dai risultati dell’era di Blair. Piuttosto, si può sostenere che, tornando più o meno ai livelli del 2010, il partito sembra avere arrestato quella tendenza al declino delineatasi a partire dagli ultimi anni di governo di Blair e in coincidenza con le leadership di Gordon Brown ed Ed Miliband.
Ma è sicuramente significativo che un candidato come Corbyn – così spesso definito come un grigio burocrate, nostalgico dello statalismo e degli anni Settanta – si sia rivelato in grado di conquistare una fetta rilevante dell’elettorato specialmente giovane, senza troppe concessioni alle logiche della “personalizzazione” e dello spettacolo politico. E da questo punto di vista non è improprio accostare il profilo di Corbyn ai casi di Bernie Sanders e di Jean-Luc Mélenchon. A prescindere dalle differenze, questi tre leader – pur partendo da posizioni minoritarie e “radicali” – sono riusciti, infatti, a conquistare una posizione significativa proprio riuscendo a mobilitare con “vecchie” parole d’ordine un elettorato (principalmente giovane) scarsamente legato ai partiti e in misura consistente orientato verso l’astensione. Ed è probabilmente per questo che Corbyn può essere considerato anche come espressione di un inedito “populismo di sinistra”, dai tratti ancora poco definiti.
I dati più significativi che emergono dall’appuntamento elettorale britannico sono comunque soprattutto due. Il primo consiste nella riduzione della frammentazione politica. In effetti, se i conservatori non ottengono la maggioranza, i piccoli partiti vengono comunque ridimensionati rispetto alle precedenti elezioni. Il rafforzamento del bipartitismo – che invece era uscito attenuato dai due ultimi appuntamenti elettorali – emerge ancora più chiaramente se, al di là della distribuzione dei seggi, si osservano i dati sul voto popolare. I Tories passano infatti dal 36,9% del 2015 al 42,4%, mentre ancora più significativo è l’incremento dei laburisti, che ottengono il 40% e dunque dieci punti percentuali in più rispetto al 30,4% ottenuto due anni fa (e al 29% del 2010). Al contrario, lo Ukip crolla a poco più dell’1%. Un elemento in controtendenza proviene invece dall’affermazione del Partito Democratico Unionista dell’Irlanda del Nord, che con i suoi dieci seggi potrebbe diventare il prossimo partner di governo dei conservatori.
Il secondo dato rilevante che esce dalle elezioni non può non riguardare la debolezza della leadership di Theresa May. Al di là della possibilità di costruire una coalizione con gli unionisti nord-irlandesi, il partito conservatore – pur avendo ottenuto una vittoria – è il vero sconfitto di queste elezioni, non solo perché si ritrova con una pattuglia parlamentare ancora più esigua, ma forse soprattutto perché il governo May esce davvero molto indebolito. Probabilmente ciò non avrà alcuna conseguenza sulle trattative sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, anzi è probabile che si prosegua con ancora maggiore energia sulla strada di una “hard Brexit”. Ma non è escluso che tra i Tories si riapra una discussione sulla leadership. E non si può neppure scartare l’ipotesi che il Parlamento “appeso” uscito dalle urne sia destinato a durare poco, e che dunque gli inglesi tornino a votare un’altra volta abbastanza presto, come accadde d’altronde nel 1974.
Un’altra tendenza che emerge dai risultati delle elezioni britanniche riguarda però la fragilità delle leadership. Perché anche la leadership all’apparenza più solida sembra destinata ormai a consumare nell’arco di pochi mesi il proprio ciclo vitale. Si tratta per molti versi di una conseguenza della logica stessa della democrazia, che vive anche alimentandosi di promesse che non possono essere mantenute e di entusiasmi destinati a scemare. Ma oggi – in un contesto segnato dall’indebolimento delle identificazioni e, paradossalmente, dalla nascita di nuove polarizzazioni – sembra ancora più vero. Per i leader delle nostre democrazie, la Fortuna sembra infatti tornare a essere un ingovernabile fiume in piena. E – a dispetto di ogni sondaggio, calcolo o previsione – la prova delle urne assomiglia sempre di più a un confronto con gli imprevedibili capricci di un “destino cinico e baro”.
* docente di Scienza della politica, facoltà di Scienze politiche e sociali, sede di Milano e Brescia