di Maria Chiara Gelosa *
Ogni viaggio inizia con una partenza, e ogni partenza è preceduta da attese, preparativi, paure, speranze. Molte di queste per me sono state alimentate dal mondo che avevo attorno. Alcuni erano entusiasti dell’esperienza cha avrei fatto, sicuri che un viaggio simile avrebbe cambiato la mia vita. Altri mi trasmettevano invece timori. Fin da subito sono stata sommersa da immagini e pensieri che non erano miei: ho fatto fatica a liberarmi di questo carico e a ritrovare le motivazioni, le aspettative e le resistenze che erano veramente mie. Non è stato semplice, ma credo che sia stato fondamentale: ogni viaggio, ogni esperienza sono unici, in quanto uniche sono le persone che le intraprendono con le loro storie. E uniche saranno le storie che da queste nasceranno.
Per me è iniziato tutto in maniera molto semplice, quasi casuale. Una volta aver saputo di poter partire ho cercato di pensarci il meno possibile: temevo che sarei arrivata a destinazione con troppe costruzioni e che queste mi avrebbero impedito di vivere pienamente l’esperienza. Fare chiarezza su quello che mi aveva spinto a scegliere di intraprendere questo viaggio è stato però importante, ed è stato questo il bagaglio più prezioso con il quale sono arrivata a destinazione: il desiderio di incontrare persone. E tale mio desiderio ha trovato una bellissima risposta.
Non posso dire di aver compreso una nuova cultura o di aver scosso le fondamenta del mio modo di vedere il mondo: forse tre settimane sono poche o, forse, per questo bisogna essere pronti. Ho però incontrato tante persone: ragazzi e ragazze, bambini, insegnanti, sisters come vengono chiamate le suore missionarie dagli abitanti del luogo e compagne di viaggio. Le ho incontrate in profondità, nella bellezza di relazioni spontanee, talvolta faticose, ma sincere. Ho incontrato anche una parte di me stessa: quella a cui piace giocare, costruire progetti e rapporti con altri, quella a volte paziente, a volte no.
Aspetti della cultura dell’Etiopia e del suo popolo emergevano in tante piccole cose: nel saluto, nelle cerimonie quotidiane come il rito del caffé, nelle feste religiose, nell’ospitalità. Erano gocce che riempivano e coloravano ogni relazione, che era sempre il contenitore che dava vita e significato a ogni cosa. Mi sono commossa quando uno dei ragazzi che seguivamo dopo la scuola una volta mi ha fermata per strada, mi ha accompagnata a casa sua, mi ha fatto conoscere la famiglia e mi ha offerto da mangiare. Un gesto semplice, naturale e bellissimo.
A volte mi chiedevo cosa significasse essere bianche e venire dall’Italia nel rapporto con i ragazzi con cui stavamo. Una volta abbiamo domandato a un bambino se era contento che noi fossimo lì e per quale motivo. Ha risposto di essere contento perché portavamo caramelle e palloncini. In un altre parole, risorse. Anche alcuni insegnanti dicevano che era positivo che noi fossimo andate lì perché potevamo creare relazioni con l’Italia, portare materiale ma anche idee. Non perché fossimo particolarmente intelligenti, ma perché eravamo portatrici di esperienze diverse dalla loro, e dall’incontro fra diverse prospettive, consuetudini, storie poteva na-scere qualcosa di nuovo. In entrambe le direzioni.
Nel rapporto con i ragazzi delle scuole l’elemento più importante era che fossimo tutti lì per stare insieme: noi eravamo venute dall’Italia per stare con loro e i bambini si fermavamo dopo la scuola per stare tra loro e con noi. Se non ci fossero stati questo spirito e questa consapevolezza nessuno sarebbe riuscito a costruire nulla. E invece sento che qualcosa abbiamo realizzato. Nei pomeriggi trascorsi con i ragazzi e i bambini, tutte le nostre attività erano guidate da un filo conduttore: una fiaba, con la prospettiva di una recita finale. Lo spettacolo conclusivo è stato bellissimo, perché tutti avevamo lavorato insieme e partecipato. Era il simbolo del breve, piccolo ma intenso percorso che avevamo fatto insieme.
I primi giorni ero rimasta colpita dalla povertà del contesto, dalla convivenza con gli animali, da modi di vivere lo spazio diversi a quelli cui siamo abituati. Ma tali differenze sono scomparse in fretta, in quanto superficiali. Molte di più erano le somiglianze: con gli insegnanti, di cui ammiravo il lavoro e la dedizione agli studenti; con i bambini e i ragazzi, che piangevano quando erano tristi, si arrabbiavano se non vincevano, impazzivano per un pallone; con le suore, con cui condividevamo tanti momenti delle nostre giornate, facevamo battute, ci aiutavamo a vicenda. Eravamo tutti sullo stesso piano, a volte stanchi, felici, tristi ma legati da un filo che ci permetteva di lavorare insieme, con un profondo rispetto reciproco. È stata un’esperienza che mi ha resa più ricca, mi ha aiutata ad apprendere nuove misure con cui confrontare me stessa e il mondo che mi circonda, ma che soprattutto mi ha dato tanta gioia.
* 24 anni, di Monza, terzo anno del corso di laurea in Scienze del Servizio sociale, facoltà di Scienze politiche e sociali, sede di Milano