di Mariagrazia Fanchi *
Web Trafficker, Growth-Hacker, e-Reputation Manager, Branded Entertainment Coordinator: negli ultimi anni le professioni della comunicazione sono andate incontro a un processo di iperspecializzazione. La complessità del paesaggio mediale, accentuata dall’ingresso di nuovi device; l’accelerazione dei processi di rinnovamento delle tecnologie; l’inserimento delle funzioni comunicative in tutti i settori economici e produttivi hanno letteralmente polverizzato il quadro delle mansioni e dei profili professionali deputati all’ideazione, gestione, ottimizzazione della comunicazione e dei suoi prodotti.
Questo processo ha implicazioni sia positive, sia negative. Sotto il profilo occupazionale, ad esempio, la gemmazione di nuove professioni è indizio e insieme favorisce l’apertura di nuovi fronti e opportunità di lavoro; essa si accompagna però anche a una fragilità crescente delle forme di contrattualizzazione, per lo più “a progetto” e, non di rado, devalorizzanti, per il professionista, poco pagato e costretto a sobbarcarsi più incarichi in contemporanea, e per l’impresa che non capitalizza know how.
La stessa ambiguità si rileva se guardiamo alle professioni della comunicazione dal punto di vista della formazione. Anche in questo caso il processo di polverizzazione dei profili e delle competenze ha implicazioni ambivalenti: positive, nella misura in cui consente di costruire (o più spesso costruirsi) professionalità “su misura”, ritagliate sui talenti e sulle inclinazioni individuali; negative perché l’iperspecializzazione si scontra con la necessità di una formazione a 360 gradi, marcatamente interdisciplinare, che consenta ai professionisti di affrontare i continui cambiamenti del mercato e del quadro lavorativo contemporaneo e di raccogliere con successo la sfida della formazione permanente.
Se dunque le professioni della comunicazione sono cresciute in modo ipertrofico; se orientarsi al loro interno è diventato difficile, persino per chi già vi opera, in modo del tutto inopinato esse evidenziano dei tratti comuni, un plesso di competenze e di attitudini che le tagliano trasversalmente.
Anzitutto la conoscenza e le abilità legate alla gestione della comunicazione negli ambienti digitali, quella che possiamo definire un’alfabetizzazione di base: conoscere le principali analitiche del web, con riferimento ai motori e alle piattaforme più diffuse (Google e FB) è una competenza che qualsiasi professionista, anche coloro che operano sui versanti più creativi del prisma delle professioni, deve possedere.
Poi la padronanza dei linguaggi mediali e primo fra tutti del linguaggio audiovisivo: sia che si debba realizzare un contenuto, sia che lo si debba gestire, collocare strategicamente e promuovere, la conoscenza dei linguaggi è un fattore chiave e una competenza irrinunciabile.
Ancora, un ampio retroterra di conoscenze: si parla da tempo della strategicità delle humanities, della crucialità del contributo che sono in grado di offrire a tutti i settori della produzione: questo vale tanto più nel caso delle professioni della comunicazione. Un consumo culturale ampio, articolato, che spazi attraverso arti, prodotti e performance diverse è un elemento fondamentale, una parte essenziale del capitale di conoscenze e di risorse che un professionista è tenuto a mettere in campo.
Ma sono le competenze cosiddette soft che offrono più spunti di riflessione e forse anche qualche sorpresa.
Il primo aspetto che si coglie è la loro pervasività: se si scorrono le vacancy nell’ambito delle professioni della comunicazione, indipendentemente dal settore, dal dettaglio delle competenze tecniche, dall’esperienza e dall’inquadramento, i riferimenti alla capacità di lavorare in gruppo, alla flessibilità o alla capacità di uno sguardo obliquo sui problemi sono una costante.
Il secondo aspetto è che queste competenze stanno crescendo in rilevanza, sorpassando le competenze tecniche. Nell’ambito delle professioni della comunicazione queste ultime sono considerate un patrimonio ovvio, a fronte naturalmente di un percorso di studi dedicato e auspicabilmente di un portfolio di attività e di esperienze già maturate durante il periodo di formazione. L’elemento discriminante, quello che fa propendere per un candidato o per un altro, sono spesso, proprio le competenze soft, quella combinazione, non di rado contraddittoria (occorre saper dirigere, ma anche essere diretto; ascoltare, ma anche essere autorevoli guide; essere creativo e insieme rigoroso,..) che rende un professionista capace di affrontare la complessità delle vita lavorativa e professionale, le sue sfide e cambiamenti.
Formare questa attitudine, questo “tono”, che accompagna e che connota il “fare” e che va oltre il “saper fare”; sostenere corroborare questo quid, che assomiglia molto a quello che altrove chiameremmo forse umanità, ebbene è questa oggi la sfida più difficile a cui è chiamato chi prepara alle professioni della comunicazione, ma anche che più di ogni altra deve essere raccolta.
* docente di Strategie e linguaggi della comunicazione mediale, facoltà di Lettere e Filosofia, direttrice dell’Alta Scuola in Media, comunicazione e spettacolo (Almed)