Ufficialmente il Covid-19 non è più un’epidemia ma una “pandemia”. A stabilirlo è stata l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) dichiarando che ci troviamo di fronte a «un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro cui la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie». In questo modo ha sancito quanto era già evidente da giorni, considerato anche il numero dei Paesi colpiti: al momento (per chi legge l’articolo) ammonta a 114 su un totale di 193 mentre i contagiati sono 118 mila e 4.200 le vittime.
Ed è proprio l’Oms – l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata sui temi della salute nata nel dopoguerra per permettere a tutti i popoli di raggiungere il livello più alto possibile di salute – che può emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite, nel rispetto della sovranità, come ha già fatto in Cina, Italia e Iran e potrà prendere nuove misure per sostenere i Paesi più colpiti con l’invio di presidi sanitari. La stessa Oms - il cui componente italiano nel Consiglio Esecutivo è l’epidemiologo dell’Università Cattolica - Fondazione Policlinico Gemelli professor Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Coronavirus - aveva additato l’Italia a modello per le misure adottate al fine di impedire il propagarsi del contagio.
Per Pasquale De Sena, docente di Diritto internazionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo, la dichiarazione di “pandemia” non produce effetti giuridici particolari, non stabilendo una gravità del virus ma della sua diffusione. «L’Oms ha potere di adottare regolamenti di carattere generale, come fece nel 2005 per via della Sars. Non ha il potere di obbligare il singolo Stato ad adottare misure particolari. Nel nostro caso non può intervenire in modo vincolante verso Stati Uniti e Francia che hanno scelto altra strategia di resistenza al virus. Si caratterizza per la limitazione della sua capacità di intervento verso il singolo Stato, ma le misure di carattere generale vanno rispettate nell’autonomia della strategia di resistenza che è diversa da Paese a Paese. Tale regolamento ha maglie larghe e non copre tutti i casi che si possono verificare, lasciando liberi gli Stati di adottare modalità concrete, e non ha potere di intervenire. Nel nostro caso, la strategia dell’Italia è stata lodata, quindi ritenuta efficace e opportuna. Al momento non si sa chi ha ragione, lo svolgersi degli eventi ce lo potrà dire».
Un principio che il professore De Sena mette in evidenza è quello di solidarietà europea che emerge chiaramente dai trattati e che nel caso del Coronavirus non è stato applicato dall’Unione Europea: «La maggiore compartecipazione agli oneri logistici e sanitari derivanti dal carico di alcuni Stati di gestione dell’epidemia non ha visto nulla di significativo nei confronti dell’Italia, invece si è mossa la Cina, che nulla a che fare con l’Unione Europea, che ha promesso l’invio di respiratori e mascherine».
Anche per il professore Gabriele Della Morte, anch’egli docente di Diritto internazionale nella facoltà di Giurisprudenza, la dichiarazione del direttore generale dell’Oms è sintetica e non allarmante, perché pur riconoscendo la diffusione del virus fa intendere che è controllata, evitando un allarmismo ingiustificato. «Sul sito dell’Oms la presenza delle informazioni sulla diffusione e di linee guida molto pratiche sui comportamenti da tenere (rimpatri, modalità di quarantena, indicazioni per il personale sanitario, modalità di prevenzione, uso delle mascherine) fanno ritenere che tale dichiarazione non abbia a che fare con la qualità della minaccia ma con la quantità grazie al riconoscimento della sua diffusione».
Inoltre, afferma il professor Della Morte, l’azione dell’Oms prevede controllo, cooperazione e monitoraggio delle situazioni nei singoli Paesi. Il fatto che non sia previsto un sistema sanzionatorio, pone un problema di efficacia della qualità della cooperazione. Un conto è la cooperazione di un Paese dell’Unione Europea, un conto quella di un Paese africano con problemi di crescita al suo interno. L’impegno, quindi, è quello di garantire uniformità per evitare disparità nella percezione del fenomeno.