Cosa c’entra un filosofo come Søren Kierkegaard con i social media? Considerato da molti il padre dell’esistenzialismo, il filosofo danese era estremamente attento ai modi della comunicazione, anzi era perfettamente consapevole che una certa modalità comunicativa potesse influire in modo essenziale sugli stessi contenuti del messaggio.
Per questo il suo pensiero è al centro del simposio “Truth and Communication in the Age of Misinformation from Kierkegaard to Social Media” in programma il 16 e 17 novembre a New York, per iniziativa del Dipartimento comunicazione dell’Università Cattolica e dell’Institute for International Communication del College of Professional Studies della St. John’s University.
Kierkegaard comprendeva le dimensioni esistenziali dell’ambiguità nella comunicazione, ciò che chiamava ‘comunicazione indiretta’, e come la comunicazione stessa forma le relazioni umane.
«La grandezza di Kierkegaard è incontestabile» spiega il professor Fausto Colombo, docente di Teoria della comunicazione e dei media in Università Cattolica. «Tuttavia, come per tutti i grandi pensatori, alcuni aspetti della sua riflessione sono stati messi meno in luce di altri. Così è per il tema della comunicazione e per quello della verità. Qui Kierkegaard è invece straordinariamente attuale, e ci aiuta a comprendere il legame tra la trasparenza di chi comunica e la sua capacità di dire il vero. Dal suo pensiero nascono prospettive illuminanti sulla dimensione etica del dire e su quanto affidare agli algoritmi di ricerca e combinazione la nostra fiducia nella verità sia paradossale e pericoloso».
Secondo Ingrid Basso, ricercatrice del Dipartimento di Filosofia dell’Università Cattolica e relatrice al simposio, «quando parliamo di Kierkegaard ci riferiamo naturalmente a un vero che è in se stesso vitale, un vero esistenziale”.
L’Università Cattolica, tra l’altro, già nel 2013, in occasione dei 200 anni dalla nascita del filosofo danese, si era occupata, sul versante filosofico, proprio del tema della comunicazione in Kierkegaard, pubblicando un volume monografico della ‘Rivista di Filosofia Neo-Scolastica’ dal titolo: Comunicare l’esistenza: la singolarità e i suoi linguaggi, dove il rapporto tra verità e comunicazione era preso in esame da un punto di vista primariamente ermeneutico. Ora, come tutto questo può rientrare in un discorso che voglia affrontare il problema attuale delle cosiddette fake-news? Innanzitutto per poter parlare di “fake” bisogna avere appunto un corrispettivo opposto di riferimento, che si usa appunto definire “vero”, ma che potremmo però meglio chiamare “autentico”.
Kierkegaard, in quanto filosofo, se non potrà mai darci operativamente un algoritmo capace di individuare una notizia falsa, è però in grado di aiutarci a problematizzare consapevolmente che cosa significhi “vero”: oggi è di moda parlare di post-verità: bene, quale verità? In secondo luogo va detto che le riflessioni kierkegaardiane sulla comunicazione non erano avulse dal contesto in cui il filosofo viveva: non dimentichiamo che la bufera del 1848 colpì anche lui e pertanto i temi della libertà di stampa, della proliferazione di informazioni e del sempre crescente potere dell’opinione cosiddetta “pubblica” erano per lui di scottante attualità. Inoltre lui stesso fu oggetto di una campagna denigratoria di un giornale satirico, Corsaren, a opera di quelli che oggi chiameremmo dei veri e propri haters.
«Forse in questo contesto Kierkegaard può aiutare la riflessione contemporanea sulla comunicazione - conclude Ingrid Basso - indirizzando l’attenzione verso una via in cui la parola, tornando per così dire a farsi carne, può decidere della vita stessa di chi la usa e spingere dunque a un’educazione alla responsabilità verso un qualcosa che dura oltre il tempo di un clic».