Il “trapianto” di flora intestinale da un individuo sano è molto importante ed efficace per il trattamento dell’infezione da Clostridium difficile, una grave infezione che può dare ricadute ed essere ingestibile con gli antibiotici a causa delle resistenze ai farmaci. Tale opzione terapeutica andrebbe implementata e resa disponibile, ma barriere istituzionali relative soprattutto all’assenza di una regolamentazione appropriata ne impediscono l’adozione nella pratica clinica.
È quanto emerge dai lavori di una consensus conference europea, pubblicati sulla rivista Gut, cui ha partecipato un pool di esperti europei, riunitisi recentemente a Roma in occasione del corso “Fecal Microbiota Transplantation Dissemination Project”, che ha ricevuto un finanziamento triennale dalla United European Gastroenterology (UEG).
«Il trapianto di microbiota intestinale (conosciuto anche come “trapianto fecale”) da donatore sano si sta rapidamente diffondendo nella pratica clinica in tutto il mondo» afferma Giovanni Cammarota, docente di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Fondazione Policlinico Agostino Gemelli di Roma, e coordinatore del gruppo di lavoro.
«Oltre che per il trattamento dell’infezione da Clostridium difficile si pensa possa avere un ruolo anche nella gestione terapeutica di altre patologie possibilmente associate con l’alterazione della flora batterica intestinale, per esempio le malattie infiammatorie intestinali, il colon irritabile, alcuni disturbi metabolici o addirittura neurologici (come l’autismo)».
Attualmente, la procedura viene effettuata in molti paesi europei. In Italia solo pochi ospedali sono in grado di offrire questa chance terapeutica e il Policlinico Gemelli è un punto di riferimento nazionale sia per il trattamento dei pazienti sia per il training alla procedura di molti medici specialisti che vogliono implementare la procedura. Da almeno quattro anni, una collaborazione molto stretta tra un team di gastroenterologi e di microbiologi ha permesso di raggiungere risultati significativi sia sul piano assistenziale che scientifico.
«I risultati aggiornati a oggi sulla sicurezza e sull’efficacia ottenuti nei pazienti affetti da infezione ricorrente da Clostridium difficile e sottoposti a trapianto di microbiota presso il Policlinico Gemelli – continua Cammarota – dimostrano che nel 94% dei riceventi si è avuta la risoluzione dell’infezione, con nessuna reazione avversa significativa. Per questo motivo è molto sentita nella comunità scientifica internazionale l’esigenza di fare il punto sulle evidenze scientifiche pubblicate negli ultimi anni, e anche di fornire linee-guida procedurali e organizzative per la implementazione della procedura nella pratica clinica».
«Dai lavori della consensus – afferma il professor Cammarota – emerge chiaramente che il trapianto di microbiota intestinale è un’opzione terapeutica fortemente raccomandata dagli esperti per il trattamento dell’infezione da Clostridium difficile che non risponde alle terapie antibiotiche o che ricorre dopo il trattamento. Per tutte le altre indicazioni la procedura andrebbe invece utilizzata solo per finalità di ricerca.
Lo studio fornisce inoltre una serie di raccomandazioni volte a facilitare l’inserimento di tale procedura terapeutica ancora non convenzionale nel governo clinico, ovvero a facilitare l’indispensabile assemblaggio di competenze specialistiche differenti (gastroenterologiche, microbiologiche, infettivologiche) al fine di costituire un team di esperti capace di erogare la prestazione.
«Uno dei grandi risultati ottenuti dai lavori della consensus conference è, infatti, aver raccomandato fortemente l’implementazione di centri-FMT (fecal microbiota transplantation) in strutture ospedaliere idonee e qualificate, possibilmente su base territoriale, e di incoraggiare la creazione di registri al fine di raccogliere dati relativi alle indicazioni terapeutiche, all’efficacia e al monitoraggio del profilo di sicurezza della procedura. Infine - conclude Cammarota - il panel di esperti raccomanda fortemente di intraprendere la via della implementazione di vere e proprie ‘banche di feci’ (stool banking) capaci di supportare l’erogazione della procedura su richiesta sul territorio regionale di competenza».