Nella notte del 16 giugno 1816, la diciottenne Mary Shelley concepisce Frankenstein. Un romanzo gotico in forma epistolare destinato non solo a diventare una pietra miliare del genere ma anche a cambiare per sempre il corso della letteratura. Del resto, il mito della Creatura - nata dal genio (e dalla pazzia) dello scienziato Victor - vive ancora a distanza di duecento anni dalla prima pubblicazione del volume. Proprio per celebrare questo anniversario, lo scorso 16 novembre l’Università Cattolica ha ospitato la presentazione della nuova traduzione italiana, basata sulla versione integrale e non censurata, datata 11 marzo 1818.
Come spiega Francesco Rognoni, docente di Lingua e letteratura inglese dell’Ateneo, solitamente si preferisce tradurre l’edizione del 1831, rivista e corretta dalla stessa autrice: ecco perché la casa editrice Neri Pozza ha creato «un grande valore» nel ripubblicare l’opera originale, affidandosi al traduttore Alessandro Fabrizi. Presente anch’egli alla conferenza, l’attore e regista romano ha letto parte del capitolo quarto, il momento clou della storia: il mostro di Victor prende vita, in una «tetra notte di novembre». L’eccezionalità del lavoro svolto da Fabrizi - nonché della sua figura - è stata sottolineata da Arturo Cattaneo, direttore del Cenvi, il Centro di ricerca sulla cultura e narrazione del viaggio dell’Università Cattolica. Il docente ha ricordato che Fabrizi non solo ha portato in scena grandi classici della letteratura (come Rosso Malpelo di Giovanni Verga), ma dal 2013 è direttore artistico della Festa di teatro eco logico di Stromboli, grazie al quale ha ricevuto la medaglia del presidente della Repubblica per l’edizione 2014.
Ospite speciale della conferenza è stata Nadia Fusini, scrittrice e critica letteraria, che ha curato l’introduzione del nuovo volume. «Sono molto contenta di essere entrata in questa avventura con Alessandro» ha esordito, «quando mi hanno proposto di lavorare al libro l’ho chiamato perché mi fidavo, e infatti è stato molto bravo». Fusini ha in seguito esaltato l’autrice Mary Shelley, una persona «esile e delicata», che ha dovuto persino nascondere il proprio nome nella prima versione del romanzo, uscita anonima «perché all’epoca si trovava sconveniente l’idea che una donna pubblicasse». Invece, nell’edizione del 1831 Shelley decide di firmarsi, «si autorizza a essere autrice del libro»: un atto coraggioso, specie considerando i contenuti di Frankenstein, che in profondità tratta del sottile rapporto tra vita e morte e della scienza che vuole dominare il mondo.
«A lei non importa del maschio eroe che combatte i potenti; a lei interessa sondare la tormentata capacità dell’uomo scienziato di farsi padrone di vita e morte. Victor, infatti, si spaventa di ciò che ha fatto». Temi che ricorrono concretamente nell’esistenza dell’autrice: «Mary Shelley è orfana della madre Mary Wollstonecraft, famosa intellettuale e femminista ante litteram, grande sostenitrice della libertà femminile, che paradossalmente muore della morte più convenzionale» per una donna, ossia «di parto mentre dà alla luce proprio Mary». La stessa scrittrice, all’epoca giovanissima, «prima di incominciare a scrivere il romanzo perde una bambina, nata prematura. Per lei dare la vita è in presa diretta con il ricevere la morte».
Pur essendo figlia di grandi letterati (il padre è il filosofo William Goodwin), in Mary non c’è «alcuna traccia di narcisismo o egocentrismo; lei è abituata a vivere per conoscere, per coltivare la sua mente, la sua anima. Questa è la vera eredità della famiglia». E, come dice Fusini, proprio questa sua attitudine l’ha portata a scrivere Frankenstein, «un romanzo che non smetteremo mai di leggere», nemmeno duecento anni dopo.