di Giuseppe Lupo *
Sarebbe una banalità se dicessi che il Festival di Sanremo possiede una capacità seduttiva in grado di coinvolgere qualsiasi individuo, ma voglio correre ugualmente questo rischio: è una manifestazione a cui nessuno, almeno nella serata finale, riesce a opporre resistenza. Non ci credevo almeno fino alla sera di un febbraio non così lontano, in cui vidi Raffaele Crovi correre verso casa perché non voleva perdersi nemmeno la sigla iniziale di questa manifestazione. Lo guardai perplesso e lui mi redarguì con i suoi modi taglienti: “Se vuoi conoscere l’Italia, devi guardare Sanremo”. Aveva ragione.
Sanremo è da sei decenni il termometro con cui misurare la temperatura del Paese: gli umori del nostro popolo, le trasformazioni economiche e sociali, i passaggi da un’epoca a un’altra, le contraddizioni nella nostra identità. E anche se - ma solo in apparenza - propone canzoni facili e spensierate, adatte a un pubblico disimpegnato e leggero, scavando sotto la patina di superficie si scoprono i risvolti di un racconto che ha i contorni di un’epopea popolare, dove l’aggettivo popolare non è sinonimo di pubblico basso, ma di condiviso, di allargato.
L’Italia delle bianche colombe, dei papaveri e delle papere (una nazione un po’ ingenua, ma anche sofferente per questa finta ingenuità che le circostanze impongono) finisce quando comincia quella tumultuosa delle manifestazioni operaie dell’autunno caldo e dell’austerity. Come non pensare, per esempio, a Chi non lavora non fa l’amore (1971) di Adriano Celentano? Quelle canzoni spesso hanno detto più di quanto i loro stessi ascoltatori non siano stati in grado di immaginare.
Basterebbe già solo Domenico Modugno, in frac bianco e con le braccia allargate, e quel suo gesto che accompagna l’urlo chagalliano di Volare (rompendo con la tradizione secondo cui ai cantanti spettava presentarsi con atteggiamento ingessato) e che poi di fatto inaugura la stagione del miracolo economico, la più importante per il Novecento italiano. Un’intera generazione di giovani e meno giovani si è identificata nell’inno alla libertà che si intuisce Nel blu dipinto di blu (1958) e, se solo si fosse alzato lo sguardo al cielo, non sarebbe stato difficile scovare le scie dei satelliti sovietici e statunitensi che proprio in quegli anni giravano intorno alla Terra.
Certo agli occhi di molti intellettuali parecchie di quelle canzoni avranno provocato l’orticaria e forse anche un moto di reazione che Italo Calvino, Umberto Eco e Franco Fortini hanno voluto manifestare in quella specie di controfestival che è stato il progetto di Cantacronache tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta.
Ma questo rientra perfettamente nel profilo di una nazione dalle forti recrudescenze ideologiche e forse anche nelle esasperazioni di una civiltà letteraria che spesso, durante le fasi cruciali del secolo, ha stentato a trovare il vocabolario per raccontare se stessa in relazione al mondo che cambiava troppo rapidamente rispetto ai tempi delle istituzioni culturali.
E non di rado è accaduto che nei ritornelli più bistrattati, quelli dove troppo facilmente circolavano parole di una quotidianità logora e incolore, sia transitata la vita degli individui destinati a rimanere numeri adatti alle statistiche. Eppure anche da lì è transitata la colonna sonora che per noi italiani ha significato sentirci nazione, sentirci dentro una memoria che si è fatta patrimonio di tutti.
* docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, sedi di Brescia e Milano