Un rilevante mutamento di prospettiva che accentua il carattere contrattuale del rapporto medico-paziente. Il professor Adriano Pessina, direttore del Centro d’Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, analizza così il senso della proposta di legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), che dovrebbe andare in discussione nei prossimi giorni in Parlamento. Le Dat sono l’espressione della volontà di una persona - in pieno possesso delle proprie capacità mentali - in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte.
«Già nell’articolo 1.1 si fa un’affermazione che va ben oltre gli articoli della Costituzione, che pure vengono citati, quando si afferma che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”» afferma il professor Pessina, ordinario di Filosofia morale, che aggiunge: «Quel nessun trattamento impedirebbe il pronto soccorso e tutta la medicina che si occupa dei neonati e di quanti non sono in grado di esprimere un consenso informato».
Un cambiamento notevole… «Il carattere contrattuale è evidente soprattutto nel comma 2 quando il consenso informato diventa addirittura atto fondante della relazione di cura: “È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico il cui atto fondante è il consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza professionale, l'autonomia e la responsabilità del medico”. I due criteri, uniti, introducono un rilevante mutamento di prospettiva».
In che senso? «La relazione di cura ha sempre avuto come atto fondante la tutela della vita e della salute del paziente, e il consenso informato ne era un mezzo, uno strumento. Inoltre, si trattava di un percorso dialogico tra medico e paziente, che solo in ultimo poteva terminare con la sottoscrizione di un documento cartaceo. Oggi si capovolge la prospettiva: diventa rilevante anzitutto il documento di consenso in sé e la questione della tutela della vita e della salute è sospesa nell’intreccio di due volontà, quella del medico e quella del paziente, che rischiano di entrare in conflitto».
Questo capovolgimento cosa produce? «Crea più problemi che soluzioni. Se nel consenso informato “si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza professionale, l'autonomia e la responsabilità del medico”, occorre chiarire come gestire le situazioni in cui l’autonomia decisionale del paziente non c’è ancora, non c’è più, non ci sarà mai o è viziata dalla difficoltà di capire adeguatamente che cosa c’è scritto nel consenso stesso. Da qui lo stringato articolo 2 dedicato a come gestire la volontà di “minori e incapaci”, come leggiamo nel progetto di legge. Quando è chiara la finalità dell’atto medico, è più facile capire quali sono i doveri del medico e dove deve astenersi o intervenire, anche qualora mancasse il consenso informato. Ma se tutto dipende dalla volontà del paziente, ogni intervento è sospeso di fronte alla presenza o assenza di indicazioni del paziente stesso: per questo diventa necessario ricorrere a tutori o a amministratori di sostegno».
Ma non le sembra giusto rispettare la volontà del paziente? «Gli è dovuto sicuramente il rispetto e l’ascolto, ma è necessario che ciò che vuole il paziente abbia anche un qualche significato in ordine alla professione medica. Per esempio, c’è un passaggio della legge che mi pare finisca con il forzare il valore contrattuale del consenso, quando dice che “il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento, ivi incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali”».
Cosa rivela questa formulazione? «Evidenzia un uso del consenso che sbilancia il rapporto, perché qui non si revoca solo un consenso, ma si impone di sospendere un trattamento solo sulla base della richiesta del paziente e non si fa nessun riferimento al fatto che un medico dovrebbe sempre agire tenendo conto se il proprio atto sia o no appropriato alla situazione clinica concreta. La clausola iniziale, che pone il consenso informato come incontro tra la volontà del paziente e la professionalità del medico, dovrebbe impedire di attribuire alla sola volontà del paziente il diritto di imporre un’azione al medico qualora non fosse d’accordo».
E il riferimento specifico all’idratazione e alla nutrizione artificiali? «Andrebbe rimosso perché fa pensare che in realtà la legge voglia prefigurare come normativa per il medico la decisione di morire del paziente».
Ha ragione, allora, chi chiede l’introduzione dell’obiezione di coscienza? Se le Dat sono intese correttamente e non sono un artificio per permettere in modo surrettizio il suicidio assistito e l’omicidio di consenziente (ovvero l’eutanasia) non c’è bisogno di alcuna obiezione di coscienza. Piuttosto è legittimo prevedere che il medico ritenga che non ci siano le condizioni per soddisfare i desideri del paziente, non per motivi etici, religiosi o culturali, ma semplicemente clinici».
Quali sono i punti critici che hanno aperto il dibattito? «L’enfasi posta sulla volontà del paziente, che non permette di chiarire che non c’è alcun obbligo di sottoscrivere le Dat e che queste non possono sostituirsi alle regole fondamentali della buona prassi medica, che escludono ogni atto che risulti sproporzionato, inefficace e non adeguato alla situazione concreta del singolo paziente. Manca insomma un chiaro riferimento al fatto che le Dat non possono veicolare nessuna azione che causi direttamente e volontariamente il decesso del paziente.
Ma secondo lei è necessaria una legge come questa? «Se questa legge serve per rispristinare uno stato di fiducia nella relazione medico-paziente, e tranquillizza alcuni pazienti in ordine al loro futuro, ben venga. Ma questo risultato non lo si può ottenere se non si colloca il consenso informato nella sua veste di mezzo e non di fondamento dei processi di cura e di assistenza. Le volontà del medico e del paziente non confliggono quando è chiaro a entrambi che la finalità della medicina non è certo quella di imporre dei trattamenti, bensì di proporre delle modalità di cura e assistenza che abbiano davvero al centro la totalità della persona e quindi anche le sue scelte. Su queste basi sarebbe facile ottenere un ampio consenso nel Paese e nel Parlamento».