Derive politico-giuridiche discriminatorie e illiberali come quelle sperimentate nel tragico Ventennio hanno mostrato le antinomie sempre possibili tra “diritto” e “legislazione”, emblematicamente rappresentate dalle leggi fasciste della fine degli anni ’30 che, ammantandosi di una legalità formale, hanno di fatto concretizzato la violazione di diritti fondamentali della persona, della libertà e della dignità umana. La ricorrenza della Giornata della memoria è stata un’importante occasione per sollecitare il giurista a riprendere le fila di una riflessione, che non dovrebbe mai essere interrotta, circa legittimazione, modalità e limiti dell’intervento giuridico, in particolare penalistico, nella piena consapevolezza che il testo normativo, quale risultato “politico”, è come tale sempre esposto al rischio di costituire un prodotto contingente e imperfetto, se non un vero e proprio strumento di disuguaglianza. Una riflessione resa possibile dal seminario permanente organizzato mercoledì 25 gennaio dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Giuridiche sul tema “Memoria e comprensione dell’“altro” tra difesa sociale e garanzie individuali: la prospettiva giusletteraria per un diritto penale democratico”. Relatrice dell’incontro Arianna Visconti, ricercatrice confermata di Diritto penale nell’Università Cattolica, sede di Milano.
Alla presenza del preside della facoltà di Giurisprudenza, Gabrio Forti, e del direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Stefano Solimano, nonché di professori ordinari, ricercatori, dottorandi e studenti, la dottoressa Visconti ha ripercorso innanzitutto i tragici fatti di discriminazione, disumanizzazione e neutralizzazione che hanno caratterizzato una delle pagine più oscure della nostra storia recente. In particolare, ha ricordato come l’impronta autoritaria o totalitaria dello Stato possa condizionare in modo rilevante il senso stesso dello strumento normativo, distorcendo gli obiettivi di tutela verso risultati ideologicamente selezionati, con esiti drammaticamente illiberali. Gli studi di Hannah Arendt rappresentano, a questo proposito, un monito sempre attuale per il giurista, affinché vigili rispetto alle possibili derive di poteri istituzionalmente concepiti per il perseguimento del pubblico interesse. Quando scopi ideologici arrivano a permeare il tessuto stesso della legislazione, in particolare di quella penale, lo strumento più afflittivo dell’ordinamento può divenire – anche grazie alla sua rilevante carica simbolica – causa di inasprimento dei conflitti sociali, di accentuazione della condizione di debolezza e di marginalità in cui versano alcuni individui o gruppi. La legislazione penale si trasforma allora in strumento di discriminazione, di disuguaglianza, di mortificazione della dignità umana, accelerando quel processo di de-umanizzazione già in atto sul piano sociale.
Ricordando gli apporti fondamentali offerti dagli studi di Norbert Elias sulle strategie dell’esclusione nonché di Axel Honneth sui processi di reificazione dell’altro e del diverso, la dottoressa Visconti ha evidenziato la necessità per il giurista di aver “cura” dei diritti umani, anche attraverso l’apertura interdisciplinare nel duplice momento dello studio del fenomeno oggetto di disciplina e della scelta delle risposte legislative da attuare. La “ipercomplessità” che, secondo l’efficace espressione di Edgar Morin, caratterizza lo scenario attuale della convivenza sociale, pluralista e multiculturale, ove il paradigma identitario rischia di assumere il ruolo di unico indice riconoscibile dell’inclusione sociale, non può essere affrontata dal giurista con gli strumenti inadeguati del proceduralismo e del rispetto burocratico delle forme, ma deve ispirare una riflessione democratica nel senso più pregnante del termine, che ponga al centro dei propri obiettivi di tutela la persona, l’essere umano nella sua singolarità ed unicità.
Se, dunque, i tragici eventi del Ventennio non possono essere considerati un’esperienza storica ormai superata, e se i processi di de-umanizzazione dell’altro costituiscono un pericolo concreto dell’attuale convivenza sociale – come del resto è emerso recentemente in alcuni discutibili interventi legislativi dedicati ad ambiti cruciali quali la condizione degli immigrati clandestini – il giurista è chiamato a ri-meditare il proprio ruolo in un’ottica di apertura ad approcci metodologicamente nuovi nello studio dei problemi.
In questa direzione si inseriscono le proposte derivanti dall’esperienza dei Law and Literature Studies, maturati nel contesto statunitense e negli ultimi anni diffusisi altresì in Europa e in Italia, anche grazie al contributo della scuola penalistica dell’Università Cattolica di Milano. L’esperienza giusletteraria intende inserirsi in quel “solco profondo” che sembrerebbe separare la “fluidità senza confini” della scrittura letteraria e la “rigidità dell’ordine giuridico” (Arturo Cattaneo), evidenziando quanto il tessuto prescrittivo del diritto possa beneficiare dell’immissione del “fluido narrativo” (Gabrio Forti). Proprio l’esperienza dei Law and Literature Studies offre risultati conoscitivi interessanti e proficui per il giurista, evidenziando che la via letteraria consente al lettore di accedere a contesti e situazioni difficili – se non impossibili – da sperimentare in prima persona, in quanto remoti e non familiari, confrontandosi con qualcosa di realmente “altro” da sé e sviluppando capacità di immedesimazione e di comprensione intersoggettiva. Qualità, queste ultime, essenziali per chi sia impegnato nel difficile compito della regolamentazione normativa di interessi contrapposti e conflittuali. Le stesse discipline umanistiche non costituiscono un’esercitazione puramente accademica ma rappresentano l’orizzonte culturale dell’articolato processo di regolamentazione normativa, nel momento in cui occorre apprestare strumenti di risoluzione dei conflitti che coinvolgono interessi diversificati e contrapposti. Ricordando quanto affermato dalla statunitense Martha Nussbaum nei suoi più recenti studi, la dottoressa Visconti ha sottolineato come le narrazioni letterarie siano in grado di sviluppare l’“immaginazione narrativa” del lettore, le sue capacità di ascolto e di immedesimazione empatica nelle condizioni di un soggetto “altro”. Proprio da questa esperienza può essere sollecitata una nuova “attenzione morale” all’altro, in grado di ispirare il giurista nell’elaborazione di una teoria della giustizia più “umana”, a tutela e a promozione della dignità della persona.
Nel dibattito seguito alla relazione della dottoressa Visconti sono emersi numerosi profili di criticità che la relazione con l’“altro” e con il “diverso” sottopone quotidianamente al giurista. L’imponente immigrazione in atto verso il nostro Paese, le differenze religiose e culturali che innervano il tessuto sociale, le disuguaglianze economiche e sociali, le spinte ideologiche che divengono oggetto di strumentalizzazione nel fenomeno del terrorismo internazionale costituiscono questioni urgenti che segnano l’attuale dibattito storico, culturale e giuridico. Al rischio che le esigenze di sicurezza sovrastino i diritti fondamentali dell’individuo si affiancano i rischi di politiche criminali di impronta generalizzante e riduttiva nei confronti della diversità, che sacrificano acriticamente le potenzialità dell’“identità” individuale e le esigenze di uguaglianza sostanziale. La Giornata della memoria costituisce, dunque, un monito importante e attuale per il giurista ad impegnarsi nel perseguimento di obiettivi di uguaglianza in tema di dignità e diritti da riconoscersi a prescindere da qualsivoglia diversità fattuale esistente tra le persone. Senza dimenticare l’insegnamento di una voce autorevole della nostra tradizione giuridica, per cui la legge è quella forma logica che può “permettere al legislatore di trasformare in diritto … l’interesse collettivo, purificato da ogni considerazione individuale, non turbato da impulsi personali di odio o di favore, non inquinato da moventi singolari di persecuzione o di preferenza” (Piero Calamandrei).