Da laureato del corso in Scienze motorie della facoltà di Scienze della formazione a docente di Tecniche complementari sportive in Cattolica (nella foto), è ora uno tra i più affermati preparatori atletici del panorama mondiale. Stefano Tirelli è personal trainer di famosi calciatori di origine africana, come Michael Essien del Chelsea, John Mensah del Lione e Sulley Muntari dell’Inter. La sua storia però, parte da lontano. E comincia con un forte mal di testa…
Come è avvenuto il suo ingresso nel mondo del calcio? «In un modo un po’ particolare. Una sera, era il 2002, durante una festa a Segrate, un uomo di origini libiche viene colpito da un attacco fortissimo di emicrania. Non riusciva a stare in piedi e aveva le allucinazioni per il dolore. Gli ho fatto un trattamento e in mezz’ora è stato subito bene. Quell’uomo si chiamava Karim Murabet, un ex calciatore amico di Al Saadi Gheddafi. Ha saputo del mio lavoro e mi ha proposto di andare con lui in Libia all’Al-Ittihad di Tripoli, la squadra dove giocava il figlio di Gheddafi allenata da Eugenio Bersellini».
Poi cosa successe? «In Libia conobbi l’allora presidente dell’Aquila calcio, che mi chiese di lavorare per la sua squadra. È stata la mia gavetta, sempre a fare la spola tra Milano e l’Abruzzo. I problemi non sono mancati per i pregiudizi dell’allenatore e dello staff tecnico, che, quando mi vedevano, dicevano: ”È arrivato lo stregone”».
Dopo la gavetta qual è il passo successivo? «C’è ancora lo zampino di Karim Murabet. Da un giorno con l’altro mi chiese di raggiungere l’Al-Ain, una squadra degli Emirati Arabi, in ritiro sul lago d’Iseo per la Champions League asiatica. Ci andai per seguire due giocatori infortunati. L’allenatore era Bruno Metsu, l’uomo che aveva portato il Senegal a quarti di finale dei mondiali del 2002. Con lui alla guida dell’Al-Ain avrei vinto la Champions asiatica nel 2003 e poi con gli Emirati Arabi la Gulf Cup, dopo che era diventato allenatore della nazionale. Era la prima volta che un club di quel Paese o la stessa nazionale vincevano qualcosa».
La svolta, però, ancora non era arrivata. «Avviene nel 2005. Quando a un'altra festa a Segrate mi si presenta il procuratore di Appiah, un calciatore ghanese da poco venduto dalla Juventus ai turchi del Fenerbahce. Per lui la cessione fu uno shock improvviso. Mi chiese di andare a Istanbul per curare il ragazzo dal punto di vista fisico, energetico e mentale, perché stava male. Detto, fatto. E il ragazzo cominciò a giocare alla grande, tanto che mi invitò a seguirlo nella nazionale del Ghana, dove ho partecipato alle qualificazioni ai mondiali, alla coppa d’Africa in Egitto, e allo stesso mondiale di Germania. È lì che conobbi i vari Muntari, Mensah, Kuffour, Kanu, Essien. Quest’ultimo mi chiese di raggiungerlo al Chelsea. Da allora giro l’Europa come personal trainer di vari calciatori. All'inizio dell'anno ho lavorato anche con Del Piero».
A proposito di Del Piero, perché non ha mai lavorato in Italia? «Non mi interessa il calcio italiano, che oggi è poco affascinante. In Inghilterra o Francia c’è un’altra cultura sportiva, ci si diverte ancora a giocare a calcio, anche a livello professionistico. E poi c’è una organizzazione manageriale d’avanguardia, mentre in Italia da anni ai vertici del mondo del pallone ci sono sempre le stesse persone».
Ha mai ricevuto qualche proposta? «Mourinho, che conosco dai tempi del Chelsea, nel ritiro della scorsa estate mi ha chiesto di lavorare per l’Inter, ma per ora non voglio legarmi a un unico club».
Su quali metodologie si basa il suo lavoro? «Quello che faccio nell’esperienza professionale e universitaria è ricercare tutte le possibilità a livello di implementazione performante: tutto ciò che aumenta la muscolatura ma in termini di forza e resistenza, attraverso le vie naturali dell’organismo, cioè senza l’utilizzo di integratori o sostanze dannose per l’organismo. Migliore è la circolazione energetica del sistema dei meridiani (quelli su cui agopuntura e shiatsu si basano), migliore è la salute in genere, e quindi anche la dimensione fisica, sportiva. Tutto questo l’ho codificato nella mie Tecniche complementari sportive».
In cosa consistono? «Unisco le conoscenze delle scienze motorie tradizionali - tutto ciò che concerne la teoria dell’allenamento per l’atleta - con le tecniche provenienti da altre culture, che servono a mantenere l’organismo in buone condizioni e anche a migliorare la performance. Le ho codificate facendo un lavoro di traduzione dei termini che si usano da noi con la terminologia orientale. Per esempio qui chiamiamo la tiroide “ghiandola endocrina” mentre in India la chiamano “chakra della gola". Poi ho studiato tutta la parte cinesiologica: lo studio del movimento e dei muscoli che sono interessati dal percorso dei meridiani energetici. Ho quindi fatto studi scientifici, stimolando degli atleti con la digitopressione su alcuni punti che, secondo la mia esperienza, erano utili per la performance. Infine ho testato questo lavoro con macchine isocinetiche per la valutazione della forza».
Che risultati ha ottenuto? «Questi macchinari hanno dimostrato che, là dove tu stimoli in modo corretto l’energia, hai un incremento della forza muscolare. Già dopo una seduta, per esempio, c’è un aumento medio del 15%, che è tantissimo. Questi studi sono stati presentati nei congressi annuali dell’European College of Sport Science, un’associazione dedicata alle scienze motorie e scientifiche. Sono stati accettati come lavori scientifici che hanno dimostrato come l’utilizzo della stimolazione energetica aumenti la performance atletica. Un altro ramo delle tecniche complementari sportive è quello di occuparsi delle potenzialità che noi abbiamo a livello mentale, con varie tecniche imparate qua e là nel mondo».
Questo mix di tecniche occidentali e orientali non le ha mai procurato difficoltà nei nostri club? «Dipende. Se ti poni con correttezza e umiltà e con lavori scientifici alle spalle che attestano, oltre ai risultati sul campo, che i giocatori migliorano la propria performance, è difficile che si crei un antagonismo per partito preso. A me questo è successo solo in Italia, a L’Aquila e con un grosso club, uno dei due di Milano, ma non vi dico quale. Perché l’Italia c’è poco spazio per menti aperte e per l’interrelazione culturale. Al Chelsea ci sono medici inglesi con fisioterapisti e massaggiatori provenienti da tutto il mondo. Nel momento in cui apri al confronto, ti arricchisci. Negli staff di serie A c’è invece una sorta di barriera verso l’estero e questo non ti fa crescere».
Stefano Tirelli ha un sogno nel cassetto? «Non è un sogno, perché io so che ci arriverò. Un giorno raggiungerò il livello massimo».
Cos’è il livello massimo? «Non glielo dico, ma le chiedo di rispondere a questa domanda: quale può essere l’obiettivo massimo da raggiungere nel mondo del calcio?». Vincere un mondiale. Gli occhi si illuminano e sorride.