Per la terza volta la Cattolica ha ospitato il Festival Internazionale della lingua e della cultura araba. Tre giorni con ospiti e appuntamenti, che hanno toccato tutti gli ambiti dell'incontro culturale tra oriente e occidente, dalla letteratura all'arte, dal cinema alla musica.
Ma anche nella fotografia l'incontro tra due mondi può trovare una sua sintesi. Come nel caso delle opere di Leila Alaoui, fotoreporter freelance franco-marocchina, morta nel 2016 in un attentato terroristico a Ouagadougou, in Burkina Faso, a soli 33 anni mentre lavorava per Amnesty International. Oggi il suo lavoro viene portato in superficie dalla madre Christine, che presiede la Fondazione intitolata a sua figlia e che da un anno è impegnata nella promozione degli scatti di Leila.
«Una donna marocchina - dice Fatima Baroudi, Console Generale del Regno del Marocco a Milano - esattamente come me. Ma una ragazza che, definendosi mediterranea, ha abbattuto le barriere politiche, avvicinando la sponda africana a quella europea. Una definizione che si riflette pienamente nei suoi scatti».
Leila viveva il suo lavoro come una missione sociale, sottolinea Giovanni Pelloso, giornalista del Corriere della Sera, e non è semplice trovare fotografi che capiscono e agiscono secondo uno scopo definito. «Leila si. Con i suoi scatti dava voce a chi non l'aveva, cercando di trasmettere un messaggio che riecheggiasse nella società».
I suoi ritratti a fondo nero sono infatti l'esaltazione degli sguardi di un mondo ignorato e spesso bollato come diverso. Portarlo all'attenzione di tutti era la sua missione. Anche perché, come diceva la stessa Leila, la fotografia serve se e quando racconta una storia. Oggi con la mediatizzazione di ogni aspetto delle nostre vite, siamo costantemente bombardati da immagini, il più delle volte inutili. «Un simile sovraffollamento visivo può avere valore solo quando le foto fanno trasparire l'invisibile del frame fotografico, non limitandosi al solo aspetto estetico» sottolinea Pelloso, perché «chiedersi quale significato sussista dietro a uno scatto è il primo passo per raccontare all'uomo se stesso e per capire che non siamo soli, ma è un esseri collettivi».
«Leila diceva sempre di sentirsi privilegiata» racconta Christine Alaoui. «Cercava di riequilibrare ciò che giudicava troppo eccessivo per lei, mettendo tutta se stessa nella rappresentazione di chi era lasciato indietro». Perché la fotografia per Leila era un veicolo di emozione collettivo, il cui elemento chiave era proprio la rappresentazione di sguardi di un mondo dimenticato, filtrati dalla natura multiculturale di chi sta dietro all'obiettivo.
Perché in un incrocio di culture lo sguardo è qualcosa di primaria importanza. «Quando ci troviamo di fronte a uno sguardo banalizzante e omologante, se non mettiamo in campo strumenti per vedere la complessità della realtà, veniamo meno alla base stessa del racconto e alla veridicità di una relazione». Le parole sono di Monica Maggioni, presidente della Rai, intervenuta alla tavola rotonda sull'immagine degli arabi nei media occidentali. «Non c'è dubbio - prosegue Maggioni - che nel mondo globalizzato in cui viviamo una decisione come quella del Muslim Ban, presa dall'altro capo del mondo, influenzi anche la nostra società, il nostro modo di pensare l'altro, il diverso. Ma far esplodere le bolle banalizzanti e omologanti e sostituirle con fatti e valutazioni costruttive è nostro dovere. E dobbiamo farlo tutti per demolire il pregiudizio e costruire un vero giudizio».
Di fianco alla presidente della Rai, la voce di Samuel Shimon, direttore di Banipal, magazine di Letteratura araba moderna, parla chiaro: «La società occidentale sembra non voler accettare gli aspetti positivi del mondo arabo. Io non sono contro nessuno nello specifico ma esistono interessi economici e politici che mettono il mondo dell'informazione nelle mani di ambienti che spesso e volentieri indirizzano in maniera unilaterale il pensiero di chi legge o ascolta».
La strada per una reale integrazione culturale rimane quindi lunga. Naghib Mafuz, uno dei grandi della letteratura egiziane, scrisse che si può giudicare quanto è intelligente un uomo dalle sue risposte. E si può giudicare quanto è saggio dalle sue domande. È tempo di porsi le domande giuste. Senza dimenticare lo sguardo di chi ci sta davanti.