di Ilenia Provenzi *
I primi due giorni in Cina mi hanno insegnato che l’immaginazione gioca strani scherzi. Mi ero figurata Hangzhou come una cittadina di provincia, invece dalla nebbia autunnale sono emersi grattacieli, viali larghi quanto le nostre autostrade e un traffico degno di Milano nell’ora di punta. Comincio a capire che il concetto di “piccolo”, in Cina, si applica solo ai piatti (della dimensione dei nostri piattini da caffè), alle botteghe e alla statura degli abitanti. Perciò, quando visitiamo l’Università di Media e Communication dello Zhejiang (la provincia forse più ricca della Cina, subito a Sud di Shanghai, la cui capitale è proprio Hangzhou), sono pronta a vedere stravolto il mio dipinto mentale di un’antica università annidata nel cuore cittadino: in effetti, il campus che ospita 108 corsi di laurea è uno dei più grandi del Paese (ospita 500.000 studenti) e, a un primo sguardo, mi ricorda più la base della Nasa a Cape Canaveral che un ateneo. È uno dei tre campus di Hangzhou, città che ha deciso di puntare fortemente sulla formazione universitaria. Un professore di letteratura inglese ci guida alla scoperta dell’ultimo edificio costruito, un palazzo di 22 piani dove si trovano aule dotate di studi di registrazione, telecamere, sale montaggio e attrezzature che ci lasciano letteralmente a bocca aperta. Chissà cosa pensa il prof cinese vedendoci così stupiti, mentre ci spiega che qui si formano i futuri anchormen della Tv nazionale e che il costo di un anno accademico va dai 5000 ai 10000 RMB, corrispondenti a 500/1000 euro. La cifra ci lascia ancora più sconvolti. Mi rivolgo alla nostra accompagnatrice cinese e chiedo quanto prende un neolaureato al primo impiego: 3000 RMB al mese, 300 euro. Come un nostro stagista.
Se noi siamo attratti dal livello tecnologico delle loro aule, gli studenti cinesi sembrano attratti da noi: durante il pranzo, due studentesse ventenni che vogliono diventare sceneggiatrici mi guardano come se fossi una specie rara e mi bombardano di domande sull’Occidente e sui miei viaggi, spiegandomi che i loro fratelli sono felicemente emigrati negli Stati Uniti per fare i dottori. Loro non vedono l’ora di vedere New York, Roma, Parigi per “shopping, museums, and beaches” specifica una di loro, mentre si prodiga a versarmi dell’altra zuppa di gamberi e tofu con la solerte gentilezza a cui ci stiamo lentamente abituando. All’ora del caffè, il corpo docente ha preparato una sorpresa per noi: la performance dal vivo, con accompagnamento del flauto, di una canzone tratta da un film (non un cortometraggio, un film da 90’ girato in costume e che verrà trasmesso da una rete televisiva importante) realizzato da insegnanti e studenti della facoltà di Comunicazioni. Peccato che l’assenza di sottotitoli renda un tantino difficile apprezzare la loro opera prima.
A Shanghai dallo sceneggiatore di Zhāng Yìmóu
Del resto del campus mi rimane impressa l’immensa biblioteca, nel cui atrio zampilla l’acqua di una fontana scolpita nella pietra: alzando gli occhi verso gli innumerevoli piani dell’edificio, non fatico a credere che sia una delle maggiori biblioteche dell’intera Cina. Reduce da questa esperienza, non so bene cosa aspettarmi dalla visita all’Università di Shanghai. Ma sono ansiosa di incontrare il professor Ni Zhen, autore della sceneggiatura di Lanterne Rosse - il film diretto da Zhāng Yìmóu e vincitore di un Leone d’Argento, che molto ha contribuito a farmi apprezzare il cinema cinese - e la regista, scrittrice e professoressa Xiao Lu Xue. Lo ammetto, il nome mi era sconosciuto prima di vedere il suo film, nella sala riunioni dell’hotel di Hengdian: anzi, eravamo tutti quanti un po’ scettici, prefigurandoci un film lento, con lunghi silenzi ed estraneo al nostro gusto. Ma la Cina è riuscita ancora una volta a sorprenderci, perché Ocean Heaven racconta una storia attuale, vera e delicata, che ci commuove fino alle lacrime. L’eroe del kung fu Jet Li è quasi irriconoscibile nel ruolo di un padre malato, che insegna al figlio autistico a sopravvivere senza di lui e si “trasforma” in una tartaruga marina per dimostrargli che, in qualche modo, continuerà a stargli vicino anche dopo la morte. Il nostro entusiasmo per il film colpisce anche i cinesi: quando incontriamo la regista all’Università di Shanghai, le due ore di dibattito volano mentre lei ci parla della sua visione della storia e del processo creativo del film, girato a basso budget in 33 giorni. È emozionante sentirla spiegare come ha lavorato con Jet Li, che tutti conosciamo per le imprese funamboliche di Hero, per aiutarlo a recitare in modo “morbido”: il suo consiglio all’attore per approfondire il rapporto speciale tra padre e figlio sul set, è stato quello di immaginarsi nel ruolo di una madre.
Sex & the City in stile orientale
Questa cineasta dal fisico fragile e minuto, ma dalla personalità eccezionale, dà un’idea di come le donne cinesi stiano cambiando negli ultimi tempi. La grinta e la voglia di fare, di allargare gli orizzonti, che emanavano le studentesse di Hangzhou non erano un caso isolato: il professor Ni Zhen (che come la regista Xiao Lu Xue insegna anche alla Beijing Film Academy, la loro Scuola Nazionale di Cinema) ci spiega che esiste una nuova generazione di registe e sceneggiatrici cinesi che sta surclassando i colleghi maschi, conquistando il pubblico con storie di giovani affamati d’amore in un mondo che non sembra più in grado di essere romantico. Pare che in Cina il romanticismo non vada più di moda: anche qui i giovani sono stati contagiati dallo stile di vita alla Sex & the City, anzi, forse ancora di più che in Occidente, visto che la Cenerentola locale (protagonista della commedia Go Lala Go) è una ragazza metropolitana decisa a tutto per conquistare il successo professionale… e il suo capo.
Sarà che parlare di storie e sentimenti universali mi tocca molto più a fondo che non la visione delle aule e delle attrezzature (notevoli, va detto) di cui è dotata anche questa struttura; ma l’Università di Shanghai mi sembra più familiare, più “umana” rispetto al modernissimo campus di Hangzhou. Qui ritrovo un po’ di quel disordine e di quell’atmosfera old style che caratterizza gli atenei europei, la mensa ha i classici vassoi di plastica e anche gli studenti sembrano meno interessati dei loro coetanei della provincia al nostro gruppo occidentale. D’altra parte, in una metropoli come Shanghai, crocevia di uomini e merci, tradizioni e culture, noi siamo (quasi) la normalità e lo scambio di idee e progetti sembra un sogno possibile, anche se la barriera linguistica non è uno scherzo. Una cosa è certa: imparare il cinese, al giorno d’oggi, non è una cattiva idea.
* Diplomata al Master in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema, lavora come sceneggiatrice e traduttrice. Dopo una breve esperienza a New York presso Rai Corporation, ha scritto diverse puntate di una sit-com per Rai Educational e ora sta sviluppando una serie per ragazzi