di monsignor Sergio Lanza *
Guardandoci dentro: “Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero”. Il centro focale del brano di Sofonia che ci propone la Liturgia non può scivolare via come coloritura romantica. Impegna piuttosto il giudizio critico. Che cosa significa in concreto? I tratti del brano profetico sono rapidi ma di straordinaria pregnanza. Contrappongono un popolo ribelle, dai comportamenti impuri cioè ambigui e falsi, contrappongono “la città che opprime”. L’annuncio della salvezza, la venuta del Signore, il tempo del Messia, sono biblicamente sempre intrecciati con la qualità del vissuto quotidiano, con il modello di società, con i comportamenti effettivi: è religione di incarnazione. È religione di conversione.
Dio respinge tutti i “superbi gaudenti”, i parassiti che sfruttano l’impegno e il merito altrui per il proprio interesse personale. La conversione attesta un comportamento trasparente, lineare e leale, alieno dalle vie tortuose e ingannevoli: “non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta”. La parabola dei due figli, proposta dal Vangelo di Matteo che abbiamo ascoltato è emblematica: una schiettezza capace di pentimento e di cambiamento, di fronte ad un atteggiamento apparentemente condiscendente, vuoto però di ogni messa in pratica. È quanto viene chiesto nell’ora presente per il futuro della nostra Università. Il giudizio su coloro che praticano doppiezza e inganno, su quanti non hanno il coraggio della verità e della parresìa è pesantissimo: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”.
Guardandoci intorno: “Guai alla città ribelle e impura, alla città che opprime”. Il panorama socio-politico-economico che riempie i notiziari inquieta ogni uomo di buona volontà, mette in evidenza quanto la trasgressione etica sia distruttiva per la vita della società. Vi sono certamente motivazioni economiche, ragioni di alta finanza, fasi cicliche e anticicliche (già ne parlava il sogno del faraone a Giuseppe: “anni di vacche grasse, anni di vacche magre”). Ma nell’attuale tornante storico si avverte in maniera corposa che la radice di quella che tutti chiamano crisi sta nello smarrimento antropologico, in quella esaltazione dell’individuo che produce il suo smarrimento esistenziale e frantuma i riferimenti sorgivi del vivere comune: “non ha ascoltato la voce non ha accettato la correzione …”. Quando l’uomo mette al centro se stesso e si fa misura di tutte le cose inesorabilmente smarrisce i riferimenti cardinali e vaga per sentieri dispersi. Questa considerazione può apparire frutto di facile moralismo; stigmatizza in realtà la radice del male. Solo ritrovando il senso autentico del Natale, solo rileggendo non retoricamente i suoi simboli di semplicità, umiltà, servizio, si può accendere una luce che ridoni speranza. Soprattutto a voi giovani dico: non lasciatevi trascinare da pensieri di sconfitta, di inutilità, da prospettive di piccolo cabotaggio. Fate vostra la parola di un antico maestro, Ireneo di Lione: “Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens”. Con quel “afferens” che dice non solo offerta di sé ma sporgenza, inclinazione, condiscendenza, andare incontro. Il Signore viene.
* Omelia dell’assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per la messa in preparazione alla festività natalizie. Milano, Aula magna, 13 dicembre 2011