È una lezione di musica, ma soprattutto di vita, quella che Daniel Barenboim tiene in Università Cattolica: alla presentazione della prima della Scala del 7 dicembre, in cui dirigerà Die Walküre, il maestro conquista la platea pur senza bacchetta, mescolando sapientemente parole, dottrina e passione, solennità e humour.
Ad affiancarlo sul palco – quello da professore dell’aula magna della Cattolica, che padroneggia quanto il teatro – c’è Guy Cassiers, il regista dell’opera. Enrico Girardi, docente della facoltà di Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, che con Paola Fandella, coordinatrice del corso, e il Teatro alla Scala organizza l’incontro, ha il compito di intervistarli. Ma Barenboim fa tutto da solo. E dà spettacolo: legge tra le righe della musica di Richard Wagner, ne svela il rigore e l’armonia, la interpreta a modo suo, scegliendo metafore inedite. Wagner? «È un genio. Il suo è teatro insieme realistico e simbolico, fonde acqua e fuoco, tutto e il contrario di tutto». Le sue composizioni? «Sono dinamiche. Wagner ha capito come nessun altro la matematica della musica: il suo è tutto un gioco di tempi, di crescendo lentissimi, i più lunghi che conosca, che creano pathos». Il maestro, seduto accanto al pianoforte, racconta così il volto filosofico degli spartiti.
Poi si chiede (e ci chiede), anche: qual è l’uso che Wagner fa degli strumenti? «La sua, è tutta una manipolazione musicale. A volte il suono di diversi strumenti si fonde tanto da non riconoscerli più, come quando nella Valchiria tromba e corno inglese danno vita al tromblese. Altre volte, invece, si escludono a vicenda, alcuni schiacciano gli altri in un gioco di forza. Sta anche in questo la straordinarietà di Wagner: essere stato il primo a comporre valorizzando la dinamica individuale dei singoli strumenti». Tutto calcolato nel minimo dettaglio, in una trama affascinante ma costrittiva che «manipola e rende schiavi del suo pensiero – continua Barenboim –: ecco perché Wagner ispira reazioni estreme: o lo si ama, o lo si detesta».
Quando si ferma, ed esce dalla trance musicale, tornando a contatto con il pubblico, Barenboim guarda Guy Cassiers e si preoccupa: «Non ti lascio spazio, parlo troppo, scusate!». Giusto un momento di ilarità, e poi ci si rituffa nell’alta cultura, questa volta con il regista, che svela l’essenza di Die Walküre. È la seconda tappa di una tetralogia – L’anello del Nibelungo – ma, spiega Cassiers, «pur legata alle altre è un’opera autonoma». Un’opera intrisa di modernità: «È la storia di una famiglia disastrata, che è specchio della decadenza politica e sociale della borghesia ottocentesca. Ma la critica culturale che muove è attualissima: la conflittualità tra le spinte indipendentistiche dei figli e la volontà di ordine dei padri, potrebbe essere paragonata alla società europea di oggi, in cui si fatica a conservare una cultura comune per l’insofferenza degli Stati nei confronti di mamma-Europa». Cassiers trasporta Die Walküre, in tutto e per tutto, nel mondo moderno: un esercizio che coinvolge anche l’identità dei personaggi: «Ognuno di loro crea mondi illusori, virtuali quanto quelli che viviamo oggi, e si smarrisce proprio in quegli stessi mondi». Allo spettatore, ovviamente, l’onere o l’onore di lasciarsi trasportare, soffrire e sperare con Wotan e compagni.
L’atteggiamento con cui dovremo lasciarci cullare dalla prima della Scala, del resto, lo sottolinea Barenboim: «Servono orecchie aperte e capacità di seguire i dettagli. Esiste anche una forma passiva di ascolto. Qui occorre quella attiva». Ma chi è, in fondo, Wagner? «Non è complicato, è solo complesso – dice il maestro –: è un creatore di complessità, amalgama ingredienti semplici dando loro forme nuove, che vanno scoperte. Se avesse fatto il macellaio, sarebbe stato il re dell’hamburger, nessuno avrebbe mescolato come lui le giuste dosi di maiale, manzo, pollo». E poi Barenboim si scusa con i vegetariani. Semplicemente geniale.