Lo storico Franco Cardini è il protagonista del secondo incontro del ciclo i “Mercoledì di Vita e Pensiero”, promosso dall’omonima libreria. Mercoledì 9 febbraio alle 17.30, nella libreria di largo Gemelli a Milano, Cardini dialogherà con il professor Danilo Zardin, docente di Storia moderna dell’ateneo, sul tema “Vita e morte nel Medioevo”. Il dibattito prende spunto dall’articolo dello storico apparso sul numero 6 del bimestrale “Vita e Pensiero”, di cui pubblichiamo di seguito alcuni stralci.


di Franco Cardini *

Danza macabra, Chiesa di San Vigilio, Pinzolo (Tn)Nel secolo centrale del pieno Medioevo, uno dei secoli in assoluto più belli della nostra storia europea, la morte non faceva paura. Per questo, quando si abbatteva su qualcuno, veniva solennizzata e glorificata nella sua funzione d’istante in cui la mortalità scompare e al morente si dischiude, serena e magnifica, la prospettiva della Vita Eterna. Morte addomesticata e annullata: «Dov’è, o morte, la tua vittoria». Eppure, proprio per questo, amata: «Laudato si’, mi Signore, per sora nostra morte corporale…».

[…] Da sempre abbiamo cercato di dominare, esorcizzare, nascondere, negare l’antica Compagna. Dall’ocra rossa spalmata sui cadaveri neolitici a simbolizzare e magicamente evocare il ritorno del sangue fresco nelle vene – e ai rituali tesi a convincere il defunto a star al suo posto, a non tornar a cercarlo, quel sangue fresco, suggendolo ai vivi… – fino al Sentiero Luminoso del film del 1965 di Tony Richardson, The Loved One (circolato da noi con il titolo, cretinissimo, de Il caro estinto). Difatti, nella felice America degli anni Sessanta che non si sarebbe mai immaginata quanto vicina fosse la crisi, la morte si negava dissimulandola: riti abbreviati e nascosti, carri funebri senza croci e color pastello, gente abbigliata come a un composto party. Tutto così diverso dal fasto funereo e spagnolesco dei grandi carri funebri della Napoli splendida e stracciona di De Sica e di Totò, con i cocchieri e i lacchè tutti alamari e passamaneria dorata come pazzarielli psicopompi, teschi e tibie tirati a lucido argenteo e falci, clessidre, ali spiegate…

Più che la paura della morte, quel che sembra presente nelle culture tradizionali – cioè in tutte meno quella occidentale moderna: perché in tutta la millenaria storia del genere umano lo “strappo”, la “rottura” sistematica rispetto alle tradizioni è qualcosa che soltanto l’Occidente/modernità è riuscito a concepire – è lo stupore dinanzi a essa, la coscienza profonda (“adamitica”?) ch’essa sia qualcosa d’innaturale e d’inconcepibile, quindi la volontà di “addomesticarla” e in un certo senso annullarla, preparando il corpo alla resurrezione o l’anima all’eternità. Ciò, in un modo o nell’altro, è presente in tutti i riti funebri del mondo.

Altra cosa è la “paura del morire”, cioè l’angoscia dinanzi a un passaggio difficile, che diviene necessario affrontare iniziaticamente. Da qui infinite precauzioni rituali, simboliche, per “abituare” il morto all’idea di esser tale, e in quanto tale separato dalla comunità dei viventi. Da qui le infinite leggende sui révenants, i morti che tornano, e le non meno infinite precauzioni per evitare o per dominare e regolare tale ritorno. Da qui gli insegnamenti relativi al vivere come più o meno lunga fase di preparazione al passaggio finale: è il nucleo del magistero di Platone. Ma è alla fine del periodo che convenzionalmente chiamiamo Medioevo che avviene appunto la grande rivoluzione che inaugura la modernità. La scoperta della paura della morte fa parte di essa.[…] 

Erano ancora lontani i tempi nei quali la morte sarebbe stata nascosta e circondata di eufemismi, come nel tempo moderno nel quale è vietato parlarne e dove i funerali si truccano da composte riunioni mondane. Ma proprio questo silenzio rendeva più profonda la paura e più evidente l’angoscia. E lo spettro della morte tornava, in forma selvaggia, ad aggredire l’inconscio e a dominare una vita in apparenza gioiosa, di gente che sperava in realtà nel prolungamento artificiale, indeterminato, dell’esistenza: si pensi al mito dell’ibernazione; oppure si trasformava nell’incubo diabolico della non-morte degli zombies e dei vampiri, a sua volta riaddomesticato nel bamboleggiar diabolico e funereo dello Halloween celebrato in sostituzione della mesta ma dignitosa e composta ricorrenza del giorno dei defunti.

Meryl Streep e Goldie Hawn nel film "La morte ti fa bella"Appariva quindi necessario e importante, fino a pochi anni or sono, reimparare ad addomesticare la morte. Tale obiettivo faceva parte dell’indispensabile recupero della “cultura del limite”, senza il quale l’Occidente sarà condannato al suicidio. La postmodernità ha viceversa imposto un’inaspettata svolta a questo trend. Un’inedita forma d’isterico giovanilismo – ben peggiore del «giovinezza, giovinezza» di arditi e futuristi, che non a caso trovava i suoi simboli nei teschi e nei labari color notte – sembra essersi impadronito dell’Occidente. Si è convenuto di chiamarla “giovanimento”: non è più tanto la morte – trattata semmai come un incidente e oggetto d’una scienza interdisciplinare, la tanatologia – oggetto della negazione isterica, quanto il passare del tempo, l’invecchiare. Meryl Streep e Goldie Hawn hanno splendidamente interpretato ne La morte ti fa bella questa sete d’immortalità conseguita attraverso le promesse d’una scienza che non pretende tanto di vincere la morte, quanto di ritardarla indefinitamente, mantenendo intanto bellezza e giovinezza. È l’antico sogno del dottor Faust, il mito reinterpretato in chiave illuministica del Signor di Saint-Germain o rivissuto come privilegiata condanna nell’Ebreo Errante. Si torna a riparlare di morte (soprattutto la Morte degli Altri): ma la si procrastina, tra farmacologia, cosmetica, chirurgia plastica che regalano giovinezza illusoria, e promesse d’una medicina la quale ha scoperto che la Bibbia aveva ragione, che si può vivere quanto Matusalemme, e ovviamente fare all’amore, fino a un’età decrepita. Nell’impazzare di queste speranze e di queste utopie, cadono morte comunque almeno due vittime illustri. La dignità e la decenza.

* professore ordinario di Storia medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze. È stato consigliere d’amministrazione della Rai; scrive per diverse testate. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Noi e l’Islam: un incontro possibile? (1994); L’avventura di un povero crociato (1997); La paura e l’arroganza (2002); L’invenzione dell’Occidente (2004); Le crociate. La storia oltre il mito (2007); Cassiodoro il Grande (2009).