di Claudio Lucifora*
«Non ti dimenticare dei poveri!» fu una delle raccomandazioni che il cardinale Bergoglio ricevette da uno dei suoi più cari amici al momento dell’elezione a Pontefice. Fedele a quell’esortazione Papa Francesco ha fatto della povertà una delle priorità del suo magistero, sia nel richiamo alla povertà come valore, sia alla povertà come miseria che toglie la dignità alle donne e agli uomini che lavorano. La crisi economica ha dato molte opportunità a Papa Francesco per richiamare l’attenzione di tutti sulla povertà, e sulla necessità che i più deboli non vengano abbandonati. A essere chiamati in causa, non sono solo le istituzioni e i policy maker, ma anche gli studiosi che devono guidare gli interventi di politica economica indicando il modo migliore per contrastare la diffusione della povertà.
Tale esercizio tuttavia è reso più difficile laddove, come in Italia, le risorse a disposizione sono scarse, la disoccupazione è diffusa, la tassazione e il debito che gravano sulle famiglie e le imprese sono elevati, e soprattutto i sacrifici non sono distribuiti in modo eguale. Infatti a fronte di una povertà crescente tra occupati e inoccupati, vi è una quota consistente di ricchezza – sotto forma di redditi, lavoro e capitali finanziari – che è “nascosta” o “sommersa” e, come tale, sfugge (in parte) alle statistiche e (in buona parte) agli interventi di redistribuzione.
Sebbene coniugare “lavoro” e “povertà” possa sembrare un ossimoro, dal momento che avere un lavoro è da sempre considerato il miglior antidoto contro la povertà, nella realtà essere occupati non è più, per individui e famiglie, condizione sufficiente per ritenersi al riparo dal rischio di povertà. In Italia, dall’inizio della crisi economica, i redditi degli individui a “basso reddito” (che si collocano cioè nei percentili più bassi della distribuzione dei redditi da lavoro) sono diminuiti di oltre il 25%, contro una riduzione di meno del 5% dei redditi mediani.
La crisi mette a nudo come, durante le fasi di ciclo economico (negativo), siano proprio i lavoratori più deboli – e anche meno pagati – a subire gran parte dell’aggiustamento. Emerge quindi la debolezza dei nuclei familiari più fragili che, da un lato, sopportano i costi della riduzione dell’intensità occupazionale all’interno del nucleo familiare (anche a fronte di riduzioni di orari di lavoro per interventi di Cig e part-time involontario), e, dall’altro, vedono diminuire sia le retribuzioni, sia i redditi.
Il pericolo di essere un lavoratore a rischio working poverty è cresciuto durante la crisi soprattutto per alcune tipologie di lavoratori: quelli con bassi profili professionali, bassa istruzione o occupati in settori in cui i salari sono generalmente più bassi. Inoltre, è aumentato il rischio di povertà relativa delle famiglie, quello che Eurostat classifica come at-risk-of-poverty rate, che interessa le famiglie il cui reddito – nonostante uno o più componenti siano occupati – si colloca sotto il 60% del reddito mediano equivalente.
La quota di working poor e di famiglie a rischio di povertà è sensibilmente aumentata durante gli anni di crisi arrivando a interessare nel 2013, come documentato dall’Istat, oltre il 16,6% delle famiglie italiane (circa 10 milioni 48 mila persone): un’incidenza di quasi 5 punti percentuali superiore alla media europea (12,0% per EU27).
In questo contesto, si intrecciano problematiche diverse. La prima problematica è quella dei lavoratori a basso reddito da lavoro, sia dipendente sia autonomo, che pur regolarmente occupati percepiscono una remunerazione del lavoro non adeguata a garantire livelli minimi di benessere per sé e per le proprie famiglie. Tuttavia, la bassa remunerazione del lavoratore non necessariamente viene a coincidere con una situazione di disagio economico del nucleo familiare. Anzi, la famiglia di cui il lavoratore fa parte, grazie a varie forme di redistribuzione tra i componenti del nucleo familiare, spesso rappresenta un efficace ammortizzatore sociale consentendo di contenere le disuguaglianze dei redditi che si formano sul mercato del lavoro.
Inoltre, una bassa retribuzione può rappresentare per i giovani lavoratori che accedono al mercato del lavoro per la prima volta, o per gli studenti che combinano istruzione e formazione con periodi di occupazione, una sorta di “porta di ingresso” per acquisire esperienza di lavoro e transitare successivamente verso posizioni lavorative caratterizzate da maggiori garanzie e retribuzioni più elevate.
Più spesso, tuttavia, nella realtà quello che si verifica è che le posizioni a basso salario si trasformano in “trappole della povertà”, senza che vi sia un percorso verso la stabilizzazione del rapporto di lavoro e una reale indipendenza economica. Come numerosi studi empirici hanno mostrato, la presenza di uno o più lavoratori a basso reddito all’interno di un nucleo familiare e la persistenza nella condizione di working poor aumentano significativamente il rischio di povertà.
La seconda problematica attiene più direttamente al tenore di vita e al benessere delle famiglie. In questo caso ciò che conta maggiormente ai fini del rischio di povertà relativa della famiglia sono anche fattori come la dimensione del nucleo familiare, il numero di figli, l’intensità di occupazione all’interno del nucleo, nonché l’esistenza di trasferimenti pubblici.
Questo aspetto mette in luce il lato debole del mercato del lavoro italiano, in cui la povertà trova origine da una scarsa intensità di lavoro all’interno delle famiglie, dovuta anche, ma non solo, alla bassa partecipazione (e occupazione) femminile. A questo si aggiunge una scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale nel ridurre il rischio di povertà attraverso politiche del lavoro passive o attive.
La diffusione dei lavoratori a rischio povertà non è solo un indicatore di malessere economico “corrente” legato all’aumento delle disuguaglianze e al basso potere di acquisto dei lavoratori e delle loro famiglie, ma anche un sintomo di malessere “cronico”, di più lungo periodo, legato alle difficoltà di inserimento sociale, alle precarie prospettive di carriera, e a problemi socio-ambientali: come la criminalità e la salute.
* professore di Economia politica alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica, dove insegna anche Labour Economics. Presidente dell’Associazione italiana degli economisti del lavoro (Aiel), è autore di numerosi articoli e volumi su temi di economia e politica del lavoro. Ha recentemente curato un volume edito da Vita e Pensiero su Economia della popolazione.