In materia educativa un errore da non commettere è considerare i luoghi dell’educazione istituzionale, le scuole, specie le pubbliche (statali o pareggiate che siano) come sistemi chiusi riducibili a un “triangolo pedagogico”: insegnante-materia di insegnamento-alunno.In realtà ciascun vertice del presunto triangolo si rivela all’analisi non un punto, ma un amalgama complesso, variabile in dipendenza di fattori e agenti esterni alla scuola e in grado di determinarne la vita. In via di primo cursorio esempio, tali sono i diversi strati sociali e luoghi da cui provengono insegnanti e alunni, i diversi modi e gradi di formazione degli insegnanti, i diversi livelli e costumi dell’educazione familiare degli alunni (e non solo), le diverse culture di cui sono portatori e alunni e insegnanti, la natura intrinsecamente composita delle materie di insegnamento. Queste ultime, anche se si proponessero di essere ciascuna un tutto omogeneo (così alcuni colleghi matematici immaginano che possano presentarsi a scuola le matematiche), e parte subiecti o meglio subiectorum, sono comunque apprezzate, assimilate e viste in modi assai diversi a seconda delle diversità di chi deve insegnare e di chi deve apprendere. In più, come può osservarsi, le scuole non sono un terminale passivo di influenze esterne, non solo perché quanto meno ne selezionano e dosano gli effetti, ma perché con il loro procedere modificano nel tempo gli stessi fattori e agenti esterni. E questo complica ulteriormente il gioco delle entità in campo e deve ancor più spingerci a mettere da parte la riduttiva visione del triangolo pedagogico. La “sfida educativa”, per riprendere il felice titolo di un interessante volume collettivo (a cura del Comitato per il Progetto culturale della Cei, 2009), si svolge su un campo nel quale interagiscono soggetti molto più numerosi dei tre vertici del semplicistico triangolo.
Queste considerazioni si rafforzano ancor più quando l’attenzione si volga ai processi di insegnamento e apprendimento nell’ambito linguistico. Giustamente un circostanziato documento europeo (Un document europeén de reférence pour les langues de l’éducation, a cura di Daniel Coste, Marisa Cavalli, Alexandru Crisan, Piet-Hein van de Ven per il Consiglio d’Europa, 2008) sottolinea, in riferimento alla generalità delle scuole europee, che le lingue in gioco nei processi educativi non sono soltanto le lingue target dei programmi – in Italia l’italiano più una o due lingue straniere e, nelle secondarie superiori, i sempre più striminziti, esangui e bistrattati latino e greco – bensì tutti gli idiomi di cui sono più o meno consapevoli portatori sia gli allievi sia gli insegnanti. Ma questo non basta. Ciò che chiamiamo “una lingua” è un repertorio composito, in cui coesistono e non sempre si armonizzano tendenze e regolarità diverse e diversi sono sia il grado di conoscenza di quanti attingono al medesimo patrimonio sia le abitudini e gli stili che si creano nelle differenti modalità d’uso della lingua, nel parlare e nello scrivere, negli usi privati o informali e negli usi pubblici o formali o solenni. Ai fautori di una visione monolitica della lingua bisogna sempre pazientemente ricordare la natura aperta e variabile certamente del lessico, ma anche delle regole e forme morfologiche e sintattiche; la variabilità degli usi; le ragioni e la funzionalità di forme che hanno cittadinanza nel parlato informale e stonano nelle scritture formali, così come stonano nel colloquiare privato intrusioni di formule auliche o burocratiche, salvo citazioni ironiche.
Aveva ragione Giacomo Leopardi quando una volta, in visita alla scuola di lingua di un purista napoletano, il marchese Basilio Puoti, maestro di Francesco De Sanctis, ai «non si può» del marchese, «affermativo, imperatorio», parlando (ricorda De Sanctis) «dolce e modesto», contrappose: «Nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento. Dire che di questa o quella parola o costrutto non è alcun esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile». Una buona, efficiente educazione linguistica deve sapersi incaricare di tutto questo. Ma questo non le è ancora sufficiente.
L’utilità del patrimonio verbale primitivo
I mutamenti accelerati del mondo contemporaneo, in particolare quelli che si registrano nel mondo della comunicazione e nei rapporti tra linguaggi diversi e lingue diverse, sono certamente cospicui (ne riparlerò più avanti), a tratti ci stordiscono e ci fanno smarrire il senso delle grandi costanti che non mutano. Il cielo stellato è ancora sopra di noi, anche se le luci urbane e lo smog rendono difficile vederlo. E, per ora, gli individui della specie umana hanno, da duecentomila anni, ancora lo stesso patrimonio genetico, anche se qua e là riusciamo a modificarne qualche elemento. E due più tre è ancora eguale a cinque (nella numerazione posizionale decimale). Chi si occupa di educazione e, in particolare, di linguistica educativa ed educazione linguistica non dovrebbe, non deve smarrire, nel mutare anche impetuoso di condizioni materiali, il senso di costanti formali. Una costante è che insegnare qualsiasi cosa comporta partire dalla realtà effettuale di bambine e bambini, ragazze e ragazzi per sollecitarne, diceva Lev Vygotskij, lo «scatto» verso un gradino di volta in volta più alto. Ciò vale ancora di più per far sì che si sviluppino le capacità linguistiche. Questo – che oggi è ben presente nel patrimonio di idee ed esperienze che caratterizzano in Italia alcuni gruppi e associazioni di insegnanti più attivi, dal Movimento di cooperazione educativa al Giscel (Gruppo di intervento e di studio nel campo dell’educazione linguistica) – in sede scientifica fu ben chiaro soprattutto e, nel mondo, anzitutto a educatori e linguisti italiani, da Carlo Cattaneo e Graziadio Isaia Ascoli a Giuseppe Lombardo Radice: il mondo linguistico e semiotico dei bambini e delle bambine non ha una valenza solo strumentale, non fa parte soltanto di un retaggio esterno ambientale, ma è intessuto e lo è, oggi sappiamo, fin dai primi giorni di vita, nel loro essere percettivo, affettivo e intellettivo; innerva le loro emozioni e le loro capacità di riflessione; anima e guida pensieri e modi di relazione con gli altri e con le esperienze. Sta dentro di loro, quale che esso sia. È questa ciò che un antico testo, il De vulgari eloquentia di Dante, chiamava la locutio prima e che cinque secoli dopo Søren Kierkegaard chiamava la Heimsprache, la «lingua di casa», anzi la Markedssprog, la umile «lingua del mercato».
Con la illuminante luce del genio questi testi rischiarano la nostra comprensione del valore primario, nobilior diceva Dante, di questo patrimonio verbale primitivo nella vita di ogni individuo rispetto agli studi scolastici ulteriori: è attingendo a esso che possiamo poi, noi umani, assuefarci alla locutio secundaria […] quam Romani gramaticam vocaverunt, fino a farcene un habitum ma nonnisi per spatium temporis et studii assiduitatem, «soltanto attraverso un lungo tempo e uno studio assiduo». Soltanto attingendo a esso potremo trovare, diceva Kierkegaard, «le risorse per lottare contro l’inesprimibile». A mezza strada dell’arco di tempo che divide il toscano Dante e il danese Kierkegaard toccò al tedesco Leibniz spiegare ciò che solo a seguito degli studi logici degli anni Trenta del Novecento siamo tornati a vedere con pari sicurezza e nettezza: dal patrimonio linguistico più trito e corrente, più triviale (Leibniz parlava di encyclopaediola), da esso e da esso soltanto nascono e in esso solo dapprima si spiegano, giustificano e cominciano ad assimilarsi i linguaggi più formali e le nozioni più complesse del conoscere critico e scientifico. Da esso, dalla lingua del pappo e dindi, dalla lingua che chiami mamma e babbo, può rampollare la locutio secundaria, regolata formalmente, cui pure possiamo e dobbiamo educarci per ampliare, se vogliamo ampliarlo, il mondo delle nostre conoscenze, delle nostre capacità operative e relazioni, sociali e culturali.
Sapersi chinare sul mondo semiotico e linguistico dei bambini e delle bambine (ciò che esige certamente per chi insegna qualche studio preliminare, capacità di osservare e tesaurizzare e “protocollare” l’osservato, lavorio di confronto con il team degli altri insegnanti, non rassegnata faciloneria ma impegnata presa in carico delle difficoltà), poi portarlo alla luce nell’esperienza corale della classe, poi mostrarne (saperne mostrare) e, dopo ancora, farne apprezzare e sfruttare la vitalità anche e soprattutto nelle eventuali sue eterogeneità e variabilità: ecco i primi quattro passi su cui innestare il cammino successivo di progressivo ampliamento del lessico e della sintassi, delle pronunzie e della morfologia della lingua comune d’una società, tenendo d’occhio la meta del sempre più pieno empowerment della lingua grammatica dominante nell’ambiente sociale, regionale, nazionale entro cui vogliamo (se lo vogliamo…) condurre bambine e bambini e adolescenti a diventare giovani e adulti cittadini pleno iure.
Questo cammino educativo per spatium temporis et studii assiduitatem verso gli usi formali e, dunque, anzitutto scritti delle lingue patrie e di cultura è ciò che chiamiamo in Italia educazione linguistica dai tempi di Francesco D’Ovidio e delle dispute «sull’unità della lingua e sui mezzi per diffonderla», una questione «democratica» (scriveva Croce nel 1901), una questione non «oziosa» per gli «altri problemi» cui si lega, spiegava Gramsci nel carcere, una questione centrale in ogni società moderna che voglia essere non solo parlamentare nel regime elettorale, ma pienamente, ma davvero democratica nella circolazione e nel controllo critico dell’informazione, nella comune elaborazione delle sue scelte. Il quadro europeo di riferimento per l’insegnamento delle lingue ha accolto concetto e dizione di educazione linguistica. E, ciò che conta ancor più, le esperienze internazionali in aree solcate dalla diversità linguistica, come fortemente lo è l’area italiana, ci dicono che quanto più le scuole sanno partire dalle Heimsprachen di bimbi e bimbe e, nei casi di più forte disparità linguistica, sanno rafforzarle e farle crescere (in Italia si tratta di dialetti ancora ben vivi per il 60% della popolazione, di spesso poveri italiani locali suburbani e delle lingue anche nobiliores del 7% di residenti d’altra lingua e origine nazionale), tanto più sicuro è il progresso degli apprendimenti delle grandi lingue di cultura e della lingua dominante nella comunità nazionale, l’italiano nel caso delle nostre scuole. E quanto più e meglio si è padroni degli usi della lingua tanto meglio ci si inoltra nel mondo della variabilità degli stili, dei linguaggi, dei saperi critici e scientifici.
La storia d’Italia e la scuola
È difficile procedere sulle vie dell’educazione linguistica o analizzarne con occhio critico modi e risultati senza guardare ai moti complessivi delle società in cui le scuole hanno operato e operano. Ciò vale dappertutto, ma in misura particolare in Italia, nell’Italia d’oggi, per l’intensità dei mutamenti che hanno vissuto in questi decenni le generazioni che vi convivono. Il linguista purus, anche se con la feluca di Accademico sul capo, se vuole capire qualcosa di quel che va avvenendo negli apprendimenti e non apprendimenti linguistici degli alunni attuali deve aprirsi a considerare da dove vengono quegli alunni, gli insegnanti e molte pratiche didattiche ancora in uso. Tenterò un rapido memento per capita. Nel 1951, quando cominciò il cammino della scuola nell’età della Repubblica e stavano studiando taluni intellettuali che oggi in lunghi articoli lamentosi rimpiangono le belle scuole del tempo che fu, la popolazione italiana in media aveva compiuto tre anni e un mese di scuola a testa. Questo indice di scolarità di 3,1 anni accomunava l’Italia ai Paesi sottosviluppati; quelli sviluppati o ricchi, come qualcuno dice più crudamente, navigavano già allora intorno ai sette, otto anni di scuola a testa. Gli adulti italiani senza scolarità almeno elementare toccavano il 60% della popolazione e molti di loro non esitavano a dichiararsi analfabeti. La scuola italiana ha compiuto un lavoro enorme. Nel giro di cinquant’anni ha portato la popolazione a un indice di scolarità di 12 anni pro capite. I Paesi poveri, sottosviluppati, sono tuttora fermi a indici di 5, 6 anni. La scuola ha portato il nostro Paese nel gruppo dei Paesi sviluppati: in coda al gruppo, ma nel gruppo. Curiosamente fuori dell’ambiente degli economisti più attenti, come Tito Boeri, il dato è avvolto nel silenzio. Ma un ceto politico e intellettuale non distratto dovrebbe sapere che questo è il debito che la nazione ha verso la bistrattata scuola e, se si vuole, verso se stessa, cioè verso la spinta popolare a cercare di raggiungere livelli più alti di istruzione (la licenza elementare tra anni Cinquanta e Sessanta, la licenza media inferiore tra anni Settanta e Novanta, il diploma secondario superiore dalla fine degli anni Novanta in poi), e verso i gruppi dirigenti che, diversamente da quelli del primo quarantennio postunitario e da quelli di età fascista, non hanno ostacolato la spinta popolare, a tratti l’hanno secondata o hanno lasciato fare. Almeno fino ad anni recenti.
In parallelo e in parte in nesso con la crescita della scolarizzazione si è svolto un secondo processo di portata storica. Negli anni Cinquanta l’uso abituale dell’italiano era ristretto a una percentuale che, ottimizzando tutte le stime, si può calcolare pari al 18% della popolazione. Un altro 18% usava l’italiano, specie a scuola e in pubblico con estranei, ma soprattutto usava uno dei tanti dialetti. Il 64% era legato all’uso esclusivo dei dialetti; forse in parte capiva frasi italiane, ma certo non usava attivamente la lingua. Dagli anni Cinquanta e Sessanta si sono manifestati veri e propri rivolgimenti demografici, economici, sociali, culturali che hanno sollecitato ad apprendere e praticare l’uso attivo dell’italiano. Certo ha inciso anche la crescita tra i giovani della scolarità elementare e poi media, ma effetti maggiori su tutta la popolazione hanno avuto le grandi migrazioni interne, dal Veneto, dal Friuli, dalle regioni meridionali, in generale dalle zone agricole e montane verso le città maggiori, specie di quello che allora si chiamò il “triangolo industriale”, Torino, Milano, Genova. Si svuotarono le aree di più tenace persistenza dell’uso esclusivo dei dialetti e milioni di nativi e immigrati si trovarono nelle stesse aziende, imprese, strade, costretti a cercare un terreno di intesa oltre il dialetto nativo. La poca scuola, che una parte aveva avuto, aveva offerto e offriva un modello di italiano, spesso scolastico e libresco: era già qualcosa. L’avvento delle trasmissioni televisive e il fascino che esercitarono su ogni strato della popolazione offrirono a costi prossimi a zero (rispetto a media anteriori come il cinema) informazioni, spettacoli, teatro, cultura anche d’élite e, con questo, diverse varietà d’uso dell’italiano parlato, ancorato in modo perspicuo e seducente al fluire di immagini (ciò che le emissioni radiofoniche, del resto assai meno diffuse, non avevano potuto fare).
Cominciò allora, con gli anni Sessanta, la lenta marcia verso l’apprendimento dell’uso attivo dell’italiano parlato. I dialetti, contro una famosa profezia fatta da Pier Paolo Pasolini nel 1964, non furono abbandonati, ma usati come alternativa accompagnante il crescente uso dell’italiano. Le indagini demoscopiche della benemerita Doxa, poi quelle su amplissimi campioni dell’Istat, hanno permesso di seguire negli anni il processo. Nella seconda parte del decennio iniziale del Duemila le cifre, arrotondate, danno il 45% di popolazione nativa (non immigrata) che parla d’abitudine solo l’italiano, il 44% che parla sia italiano sia uno dei dialetti, circa il 6% che resta ancorata all’uso esclusivo di uno dei dialetti (specie in Veneto e nel Mezzogiorno), il 4% circa che parla una delle lingue di minoranza e, in alternativa, l’italiano. Dunque, oltre il 90% della popolazione è in grado di parlare italiano e lo fa sempre o all’occorrenza. Val la pena aggiungere che mai, in tremila anni di storia, le popolazioni italiane avevano conosciuto e vissuto un pari grado di convergenza verso la stessa lingua.
Il laboratorio dei linguaggi
Le pratiche dell’educazione linguistica hanno stentato a lungo a tener conto della nuova situazione. Per decenni, dopo l’unificazione politica e fino all’età giolittiana, la stessa licenza elementare era riservata soltanto a una minoranza delle fasce giovani. E soltanto una vera e propria élite avanzava sul cammino delle scuole post-elementari e, ancor più ristretta, si affacciava nel grado superiore. Per questi segmenti ristretti un certo grado di conoscenza della lingua nazionale, l’abitudine a esercitare tale conoscenza nel conversare e nel leggere erano in larga parte garantita dall’educazione familiare. Al percorso medio-superiore, poi, arrivava, per riprendere una famosa immagine di don Lorenzo Milani, quasi solo “Pierino del dottore”, che magari da casa ereditava nozioni e letture perfino più ricche di quelle di suoi insegnanti. Chi ha avuto la pazienza di leggere i paragrafi precedenti già intende quel che è successo negli anni a noi più vicini. Gianni, con gli altri figli del 60% di senza scuola e del 64% di dialettofoni puri, è stato mandato a scuola e c’è andato e ha preteso di sedersi accanto a Pierino. Lui e i compagni e le compagne hanno impiegato un bel po’, una ventina d’anni, per prendere tutti e tutte la licenza elementare. Poi si è trovato dinanzi a una scuola media che, dal 1963, almeno sulla carta onorava l’articolo della Costituzione che prevedeva per lui e per tutti «almeno» (così dice il testo dell’art. 34) otto anni di scuola a testa, cioè la licenza media. Alle elementari aveva trovato l’aiuto delle maestre e dei maestri e dei suoi stessi genitori: maestre e maestri a contatto diretto con le famiglie, con le realtà sociali in cui operavano e sollecitati dalle conquiste del pensiero pedagogico italiano e internazionale, di Dewey e Célestin Freinet, Montessori e Giuseppe Lombardo Radice, Bruner e Gianni Rodari o Maria Teresa Gentile. Alle medie ha trovato i professori e le discipline. Hanno cercato di cacciarlo. Ma lui, testardo, molto spesso ha resistito. Molti professori – come si dice – lo mandavano avanti senza renderlo padrone della lingua e dei suoi usi nella lettura e nella scrittura. Qualche studioso ha cominciato ad analizzare il fenomeno: tra anni Settanta e Novanta la percentuale di chi usciva dalla terza media con difficoltà di lettura e scrittura si aggirava sul 20% e anche più. Questi Gianni asini e testoni sono stati oggetto di studio attento e si è visto che la loro era (ed è) una difficoltà di rapida comprensione del linguaggio del professore e dei testi, per scarsa consuetudine con gli usi più formali della lingua, quelli ben noti al Pierino del dottore. Si pose e si pone ancora un dilemma: lasciare perdere la Costituzione con i suoi otto anni di scuola e con la sua pretesa aggiuntiva che «capaci e meritevoli» possano studiare anche oltre; oppure ripensare profondamente i modi dell’educazione linguistica, dando a tutte e tutti a scuola quel che Pierino trovava in casa. Alcuni, quelli del già citato Giscel, elaborarono un’analisi dei modi tradizionali di un’educazione linguistica che aveva potuto riposare su ciò che i Pierini imparavano a casa. E con l’analisi furono proposte linee diverse di educazione linguistica, diverse rispetto alle pratiche correnti, ma non nuove: le Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica.
Il testo delle Dieci tesi, tradotte anche in francese, inglese e neogreco, ha acquisito qualche credibilità internazionale. In anni recenti qualcuno c’è chi lo ha additato come responsabile di ciò che continua a non funzionare nelle nostre scuole. In realtà non più del 20% degli insegnanti conosce le Dieci tesi e solo l’8% dichiara di essersene ispirato nelle sue attività di insegnamento. Di conseguenza abitualmente nelle aule italiane più tradizionaliste delle scuole secondarie il linguaggio continua a essere presente o, a dir meglio, si palesa in tre forme elettive, ben adeguate a Pierino. La prima, dominante, è la lezione frontale: l’insegnante parla, spiega argomenti e pagine di libro, gli allievi ascoltano. Capiscono? Sistematiche prove di comprensione in itinere mancano o sono mal viste. Talvolta l’insegnante detta: non si fida del libro di testo, spesso con ragione, e preferisce dettare lui le cose da annotare. L’importante è che l’allievo impari a ripetere “esattamente le parole” che lui, l’insegnante, ha detto, come candidamente scrive una professoressa di Torino. La seconda forma dominante è l’interrogazione: l’insegnante fa domande sul programma che si va svolgendo e l’alunno risponde. Un’indagine recente e non facile (è difficile entrare nell’aula per osservare e registrare) svolta da una valorosa studiosa, Miriam Voghera, ha cercato di quantificare l’enorme porzione di tempo che viene impiegato nelle interrogazioni. La terza forma elettiva è il tema o meglio lo svolgimento del tema: a cadenze mensili.
Le Dieci tesi chiedevano e continuano a chiedere che le aule, come è avvenuto nelle nostre eccellenti scuole elementari, si trasformino da Hörsaal in Arbeitsaal, da auditorium in laboratorium, un laboratorio dei linguaggi in cui si manifestino e accertino di continuo tutte le modalità d’uso delle lingue: ascoltare capendo e fare domande, leggere insieme o da soli e riferire di letture, discutere tra pari, connettersi ad altri pari lontani per discutere problemi comuni, elaborare grafici e tabelle, schemi e indici, scrivere e scrivere di continuo, dall’appunto alla nota ordinata, per registrare nuove conoscenze e riflessioni su quanto si sperimenta, si studia, si vive dentro e fuori della scuola, nella «scuola grande quanto il mondo» evocata da Gianni Rodari e ben nota nelle aule elementari. Qui il progetto si è largamente realizzato e le nostre scuole elementari, almeno fino allo scorso anno, sono state tra le migliori del mondo per i loro risultati. È impensabile, è «utopico», come qualcuno ha scritto, che si avviino su questa strada le scuole secondarie, specie le superiori? I Gianni, i figli e le figlie dell’81% di famiglie senza libri in casa, del 62% magari con il computer, ma senza capacità di servirsene per navigare, del 38% di dealfabetizzati in età adulta (una volta usciti da scuola ripiombati nella lontananza da lettura, scrittura, calcolo), quanto tempo ancora dovranno attendere per essere meritevoli di un’educazione linguistica rinnovata anche nelle scuole secondarie?
* Tullio De Mauro è professore emerito dell’Università di Roma “Sapienza”. Qui e in altre università ha insegnato diverse materie linguistiche, occupandosi fra l’altro di sintassi delle lingue indoeuropee antiche, storia delle idee e teorie linguistiche, linguistica educativa. È autore di ricerche e volumi, di dizionari per l’apprendimento e di un Grande dizionario italiano dell’uso (2007). È stato ministro della Pubblica istruzione dal 2000 al 2001.
Vita e Pensiero, numero di luglio/agosto, copertina [Pdf] ( KB)