Un alto tasso di disoccupati, che resta tra i più elevati in Europa. Ma anche crescita a dismisura di precari, che faticano a entrare stabilmente nel mondo del lavoro. Sono solo alcune debolezze strutturali che contraddistinguono il mercato lavorativo italiano. Debolezze su cui, però, la recessione economica internazionale ha fatto sentire il suo impatto. Come testimonia il recente Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese nel 2010 che parla di mezzo milione di occupati in meno rispetto all’anno precedente, di cui più della metà nel Mezzogiorno. Un quadro per niente rassicurante, quello tratteggiato dall’Istituto di statistica, dove a farne le spese sono soprattutto giovani e donne.
Quali le politiche e le strategie di intervento utili per contrastare tale fenomeno? Un interrogativo cui hanno cercato di rispondere i relatori che lo scorso 25 maggio hanno partecipato al seminario: “Leggere la disoccupazione, progettare le politiche. Prospettive disciplinari”, promosso dalla facoltà e dal dipartimento di Sociologia e dal Centro di ricerche Wwell, in ricordo di Eugenio Zucchetti nel secondo anniversario dalla sua scomparsa. Al centro del dibattito l’idea di fornire una lettura originale del fenomeno, con specifico riguardo ai suoi tratti inediti, gli stessi che nel corso degli anni sono stati alla base delle esperienze scientifiche del sociologo milanese: il precariato, la frammentazione del lavoro, l’eterogeneità di condizioni lavorative, l’assenza di politiche sociali.
«Quella di oggi è certamente un’occasione preziosa, che sarebbe senz’altro piaciuta a Eugenio», ha esordito il direttore del dipartimento di Sociologia Michele Colasanto, che ha introdotto e presieduto la giornata di studio. Con lui al tavolo dei relatori erano presenti Ivo Lizzola, dell’Università degli Studi di Bergamo, Emilio Reyneri, dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, e i docenti della Cattolica Francesco Timpano, Giovanni Gasparini e Vincenzo Ferrante. «Il convegno - ha proseguito Colasanto – è un’occasione per riflettere su un tema che l’attuale crisi economica ha reso di drammatica attualità, riallacciando attraverso l’esperienza della perdita del lavoro tanti destini, che sembravano fino a ieri scorrere in universi separati e paralleli, e gettando luce attraverso il peso dei numeri su un problema che resta, sempre e prima di tutto, un dramma umano, dentro una società che non ha mai conosciuto realmente la “fine” del lavoro”».
Certo, il tema della disoccupazione non è nuovo in Italia. «Già negli anni Cinquanta – ha osservato il direttore del dipartimento - il Parlamento fu impegnato nella ricerca di soluzioni per arginare il fenomeno. La novità di oggi è la comparsa di una sempre più consistente zona grigia tra occupazione e disoccupazione, fatta di flessibilità e precariato». E non solo. Basti pensare, come emerso dal Rapporto Istat, che è in forte crescita l’esercito dei cosiddetti 'Neet', ovvero dei giovani “not in education, employment or training”: nel 2010 sono stati poco oltre 2,1 milioni, 134 mila in più rispetto a un anno prima (+6,8%), i giovani fra i 15 e i 29 anni che non hanno un lavoro e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. E ancora: sono state circa 800mila (pari all’8,7% delle donne che lavorano o hanno lavorato) le donne che hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere per aver deciso di avere un figlio.
Secondo Emilio Reyneri, che nel suo intervento ha fornito un’analisi della disoccupazione dal punto di vista della differenza di genere, la crisi ha ridotto la forbice occupazionale tra generi. Questo perché i settori maggiormente colpiti, manifatturiero e costruzioni, sono in prevalenza settori maschili. Tuttavia, per il sociologo, ciò che risalta all’attenzione è il persistente gap tra Italia e alcuni paesi europei, in particolare Germania, Olanda e Svezia. Ciò vale di più se si considerano le nuove generazioni. «A penalizzare maggiormente i nostri giovani è la mancanza di nuove prospettive», ha sostenuto Ivo Lizzola, pedagogista di Bergamo. Per questo motivo per i giovani il lavoro diventa un modo per recuperare la dimensione del proprio futuro. «Il lavoro per i più non è “bene identitario” ma strumento, necessità, occasione. Una generazione giovane che desidererebbe fare “presa” sulla realtà, sul futuro, si vede nella concretezza della vita come priva di una consegna da parte della generazione adulta che, al più, offre possibilità di consumo, di qualche accesso a beni ed esperienze: certo non avvia verso prospettive, non consegna lavoro».
Ecco allora che nella società del merito e della prestazione, del successo e della gerarchizzazione, la disoccupazione si vive come colpa, come vergogna, come inadeguatezza, generando indignazione o rancore. «In questo senso la disoccupazione non è solo questione sociale - ha continuato il pedagogista -, piuttosto è il luogo dove prende evidenza e forma un ridisegno della condizione umana, delle relazioni, del tempo biografico e del tempo sociale. Luogo antropologico, rivelatore della vulnerabilità propria della condizione di donne e di uomini, e della consegna reciproca di vita e destino». Di qui l’urgenza - come più volte ha suggerito Eugenio Zucchetti nei suoi lavori - di ripartire dalla «base morale del lavoro», dando al lavoro stesso una dimensione di «responsabilità verso sé e verso gli altri». In che modo? Attraverso l’aiuto delle istituzioni, con la creazione di politiche del lavoro adeguate, e della società civile. Perché, come ha avvertito il professor Lizzola «l’assenza di politiche con il respiro del futuro, di cultura della responsabilità e della reciprocità determinano solitudine, disorientamento, rinuncia. Il rinchiudersi della vita in piccoli spazi. Soffocanti».