di Adriano Dell’Asta *
Una lezione al Teatro Santa Chiara di Brescia, ma non solo, di Tat’jana Kasatkina (nella foto nella sede di Brescia dell'Università Cattolica), una delle più autorevoli studiose di Dostoevskij, presidente della Commissione per lo studio di Dostoevskij dell’Accademia Russa delle Scienze. Ovviamente parlerà di Dostoevskij; meno ovvio è il fatto che non ne parlerà a degli specialisti, ma in incontri pubblici, per la gente comune, per i giovani di qualche liceo bresciano e per gli studenti dell’Università Cattolica.
Può apparire strano questo organizzare conferenze su uno scrittore russo di quasi due secoli fa mentre il mondo è sull'orlo dell'abisso e l’umanità sembra non avere più ragioni per difendere la sua stessa sopravvivenza, quando nella stessa patria dell’autore tutto sembra sul punto di esplodere, in una spirale di odio che niente riesce a fermare.
Diciamo subito che questa è la scommessa dell’uomo su di sé: finché riusciremo a commuoverci davanti alla bellezza, finché ci lasceremo catturare da un libro potremo dire di essere rimasti uomini. Un altro grande scrittore russo, Evgenij Zamjatin, lo diceva molto chiaramente il secolo scorso, in un momento in cui l’umanità era non meno minacciata di oggi: «L’uomo cessò di essere una scimmia, ebbe la meglio sulla scimmia, quando venne scritto il primo libro. La scimmia non se l’è più dimenticato e continua a ricordarselo sino a oggi: provate a darle un libro, e subito comincia a strapparlo, a farlo a pezzi, a insozzarlo».
Parlare di Dostoevskij oggi significa cercare esattamente di documentare questa esperienza: il permanere dell’uomo anche nelle situazioni umanamente più tremende e disperate, cercare di documentare che l’uomo può restare uomo anche nel «secolo lupo». Del resto è proprio quello che diceva lo stesso Dostoevskij in una lettera al fratello, la sera del 22 dicembre 1849, poche ore prima di partire per la Siberia, dove avrebbe scontato quattro anni di lavori forzati per la sua partecipazione a un gruppo rivoluzionario: «Essere uomo fra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo, ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito».
Sarebbero stati anni tremendi, in mezzo agli ergastolani più incalliti e abbrutiti, eppure Dostoevskij ne sarebbe uscito rinato, avrebbe innanzitutto ritrovato la fede, una fede non ingenua né bacchettona: come avrebbe potuto essere ingenuo e sopravvivere in mezzo a tanto male? E come avrebbe potuto accontentarsi di una fede di pure prescrizioni o pure forme di fronte al problema concreto della sopravvivenza e di dare un senso a tante sofferenze? In mezzo a quell’inferno Dostoevskij trovò una fede precisa, quella in Cristo sofferente e misericordioso; e grazie a questa fede ritrovò con certezza l’uomo.
Lo racconta ancora una volta al fratello in una lettera del 22 febbraio 1854: «Gli uomini sono ovunque uomini. E nell’ergastolo, tra i briganti, nel corso di quattro anni, ho avuto modo di conoscere e distinguere gli uomini. Credimi: vi sono caratteri profondi, forti, bellissimi, ed era un piacere cercare l’oro sotto la scorza grossolana. E non uno o due, ma parecchi. Alcuni non si può non rispettarli, altri sono decisamente bellissimi».
Non dobbiamo farci illusioni, non se le faceva Dostoevskij che non si nascondeva di essere stato in mezzo a quelli che lui stesso chiama senza abbellimenti dei «briganti», eppure, dal fondo di quell’abisso era uscito un uomo diverso, capace di guardare al fondo delle cose e di trovarvi la via per il bene, per quel bene e quella bellezza che ancora oggi ci commuovono quando apriamo le sue pagine.
È anche questa una sfida; anzi, a ben vedere è la sfida di questi giorni. E forse Dostoevskij potrebbe offrirci una chiave per affrontarla: una chiave per noi che spesso crediamo di sapere tutto e che con questa presunzione ci troviamo poi disperati.
È una chiave paradossale, perché non offre soluzioni facili o immediate, anzi ci propone un lavoro: «L’uomo è un mistero», aveva detto Dostoevskij nell’agosto del 1839, a poco meno di diciotto anni, «questo mistero bisogna cercar di intendere, e anche se vi starai occupato intorno tutta la vita, non dire che hai perduto tempo; io mi occupo di questo mistero perché voglio essere un uomo».
È un lavoro, ma non improponibile e in fondo più semplice che non lo scatenare guerre o pretendere di scombinare i giochi dei potenti: si tratta di cominciare da sé. In fondo a Dostoevskij è riuscito.
* docente di Lingua e Letteratura Russa, Università Cattolica