In italiano la chiamano cura, o attenzione, ma l’idea la rende molto meglio l’inglese care, che fa tornare alla mente l’I care di Don Milani: è il concetto dell’etica applicata ai servizi sociali, tema di cui si è discusso il 27 maggio scorso nell’aula magna dell’Università Cattolica, nel seminario L’etica del prendersi cura: il valore del legame sociale.
È giusto prendersi cura degli altri? Ha senso parlare di responsabilità collettiva? Esiste e può essere applicata in contesti pratici la dimensione etica del servizio sociale? In aula, giovani studenti ma anche i più esperti operatori del settore attendono risposte.
«La partecipazione sociale è per definizione farsi carico dell’altro»: non ha dubbi Vincenzo Cesareo, docente in Cattolica di Sociologia del mutamento e direttore del Centro studi e documentazione sui servizi alla persona Cornaggia Medici, che apre le danze dopo i saluti di monsignor Luigi Testore, presidente della Fondazione Luigi Moneta. «È un tema che affonda le radici nella natura stessa dell’uomo, vista secondo l’ottica personalistica piuttosto che quella individualistica», spiega. La persona, dunque, non è intesa come singolo, ma come beneficiario e creatore di legami sociali: è necessario che dia vita a un’assistenza «che non si limiti alla prestazione standard, come se fosse un supermercato dei servizi», continua Cesareo. «Solo considerandoci responsabili dei nostri fratelli, diversamente da quanto fece Caino, possiamo costruire una collettività davvero umana – spiega Fabio Folgheraiter, docente di Metodologia del servizio sociale in Cattolica –. Il compito dei servizi sociali è contrastare il male stimolando il bene nelle persone. Per questo sensibilità e delicatezza sono doti indispensabili per chi lavora nel settore».
Conciliare etica e assistenza, dunque, si può. Si può anche nelle pratiche e nelle difficoltà quotidiane, che gli operatori devono affrontare con adeguate competenze. A confermarlo è Marian Barnes, docente dell’Università di Brighton, che presenta il suo modello: «La care, applicata a contesti reali, è il modo migliore per soddisfare i bisogni privati e, nello stesso tempo, edificare giustizia sociale».
Marian Barnes racconta le difficoltà incontrate oltremanica: «Le politiche sociali inglesi tutelano in primis la capacità di scelta del malato, e dunque la sua indipendenza: in quest’ottica, la care è percepita come oppressione, che limita l’autonomia dell’individuo». Ma, continua la docente, «tale impostazione parte da un presupposto sbagliato, quello dell’uguaglianza, quando a dominare in campo sanitario e assistenziale è la condizione di dipendenza, non certo di parità». Il prendersi cura di chi dipende dagli altri, quindi, non è limitazione di libertà, ma «ridistribuzione di giustizia».
Quali sono i valori morali che la cura deve mettere in pratica, dunque? Marian Barnes delinea cinque principi: l’attenzione ai bisogni di chi riceve la cura, con il quale deve esserci una continua negoziazione su metodi e necessità; la disposizione ad assumersi responsabilità; lo sviluppo di competenze intellettive, emotive e pratiche, condizioni imprescindibili per il riconoscimento delle responsabilità stesse; la capacità di considerare le reazioni dell’assistito, che non deve sentirsi in posizione passiva; la costruzione di una relazione di fiducia: occorre riconoscere, piuttosto che insabbiare, lo squilibrio di potere del rapporto tra assistito e care giver, la condizione di dipendenza, e utilizzarla in maniera creativa.
Le sollecitazioni della docente inglese sono accolte con applausi. A tirare le somme è Paolo Gomarasca, professore di Etica e deontologia professionale nella facoltà di Sociologia della Cattolica: «Marian Barnes ha usato una parola magnifica, needness, che in italiano potrebbe essere tradotta bisognosità. Rende bene l’idea che l’uomo è per natura vulnerabile, mancante, bisognoso. Ecco perché è così importante prendersi cura gli uni degli altri».