«La cooperazione scientifico-didattica internazionale tra le università è stata, per la storia e la vita dell’Europa, almeno altrettanto importante di quanto lo furono la diplomazia e i rapporti tra gli Stati. Continua a essere rilevante, nonostante le prime apparenze, anche oggi». Come ha ricordato il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi nel discorso inaugurale dell’anno accademico, in un mondo globale come quello di oggi l’università ha la responsabilità di formare giovani preparati ad affrontare quello che sarà il proprio lavoro con conoscenze, competenze, esperienze di respiro internazionale.
È proprio con questo obiettivo che si è svolto, il 22 e il 23 giugno in Università Cattolica, il seminario dal titolo Internationalisation at home: un approccio all’internazionalizzazione. L’incontro, che fa parte del progetto Corinthiam, organizzato dalla direzione “Cooperazione, mobilità e internazionalizzazione” con i fondi Tempus, è stato guidato da Jacobus Beleen, della Hogeschool van Amsterdam – University of Applied Sciences.
Il concetto di internationalisation at home, nato in Svezia nel 1999, è stato esportato negli Usa e si sta ora lentamente diffondendo in Europa. Esso è basato sulla convinzione che il processo di internazionalizzazione degli atenei non si possa attuare solo attraverso i programmi di scambio, che permettono agli studenti di trascorrere periodi più o meno lunghi in un’università straniera, ma che si debba lavorare anche su innovazioni ai curricula di studio e a buone pratiche da instaurare all’interno degli stessi atenei.
Il seminario era infatti centrato sulla possibilità di internazionalizzare «stando a casa». Sono state individuate tre aree di intervento: la prima prevede l’internazionalizzazione del curriculum dello studente, che dovrebbe includere materie come management internazionale, studi comparati, seminari internazionali con visiting professors, attività con ospiti stranieri, lezioni in lingua inglese fino ad aumentare il numero di corsi di laurea interamente erogati in inglese.
Una seconda area è il settore amministrativo dell’università che con diversi uffici si rapporta agli studenti stranieri. Per questo occorre un incremento delle competenze interculturali, oltre che della conoscenza della lingua inglese. Infine occorre un aggiornamento delle competenze anche all’interno dello stesso servizio Relazioni internazionali, che deve capire le esigenze degli studenti stranieri a seconda del Paese di provenienza.
Il dato di partenza che ha portato a riflettere su nuove modalità per rendere realmente internazionali le università è la mobilità degli studenti che, per quanti investimenti ci si impegni a fare, si attesta sempre intorno a un numero piuttosto basso di partecipanti a programmi internazionali durante il periodo di studio. Per valutare il dato, in Europa viene utilizzato il “graduating cohort”, ossia il rapporto tra gli studenti laureati e gli studenti che vanno all’estero nel corso di un anno accademico. L’Università Cattolica, tuttavia, come ha fatto notare anche Jacobus Beleen, può vantare già circa un 20-25% di giovani, un ottimo risultato nel panorama italiano ed europeo, che spinge a lavorare ancora in questa direzione.