Costruire la propria reputazione aziendale. E, una volta conquistata, saperla comunicare e accudire. Perché il rischio che si dissolva resta alto. È questa la nuova sfida delle aziende che intendono riposizionarsi nel proprio settore di riferimento, ridefinire la corporate identity e riacquistare la fiducia dei propri interlocutori. E tutto ciò soprattutto in una fase in cui la crisi sembra aver logorato alcuni valori fondamentali. A sostenerlo un pool di esperti tra docenti di marketing, produttori di beni ed esponenti del mondo della comunicazione e della pubblicità che lo scorso 18 maggio si sono confrontati nell’incontro Convivium. Come costruire la reputazione della propria azienda. E farla valere, promossa dal Comitato Università Mondo del Lavoro dell’Ateneo del Sacro Cuore, in collaborazione con la casa editrice Tecniche nuove. La tavola rotonda, presieduta da Vito Moramarco, presidente del Comitato Università Mondo del Lavoro, e moderata dallo psicologo Cesare Kaneklin, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ha preso spunto dal libro, recentemente pubblicato, 3 passi per riposizionare la tua impresa, di Iginio Lagioni, già docente di Marketing in Cattolica.
Perché parlare di reputazione? All’origine di tutto vi è la recessione che iniziata nel 2008 ha coinvolto sia aziende di medie e piccole dimensioni, sia multinazionali. «Ciò ha generato diversi atteggiamenti - ha sottolineato Lagioni -. C’è infatti chi ha sperato che durasse poco, chi ha ridotto gli organici, chi ha ridotto gli investimenti e persino chi ha chiuso battenti. La conseguenza è che le aziende oggi devono rivedere il proprio posizionamento e sono costrette a ricostruire la propria reputazione». Si tratta, secondo Lagioni, di un percorso che consta di tre step fondamentali. «Occorre fare una sana autodiagnosi per capire quali sono i valori-contenuti. Bisogna, poi, identificare il proprio target di riferimento e, infine, comunicare questi valori perché la reputazione è sempre a due vie. Infatti, essa va costruita e riconosciuta dal maggior numero di interlocutori. Ma va soprattutto, accudita in quanto trattandosi di un valore intangibile può facilmente dissolversi». Anche Edoardo Teodoro Brioschi, docente di Economia e tecnica della comunicazione aziendale, è convinto che riposizionare la propria impresa vuol dire analizzarne la situazione. «Bisogna esaminare l’identità dell’azienda secondo una prospettiva dinamica: più che ragionare sul medio e lungo periodo, è quanto mai necessario parlare di alternative di sviluppo e di scenari differenziati». Certo, l’aspirazione di fondo è raggiungere una reputazione “buona e diffusa”. Ma il risultato, talvolta, può essere negativo. «La sfida è conoscere la propria azienda sotto il profilo delle proprie potenzialità - ha suggerito il professor Brioschi -, tenendo ben presente che la reputazione va costruita partendo dall’interno (internal reputation). Nello stesso tempo, è importante avere supporti di comunicazione per individuare i pubblici direttamente interessati, che vanno conosciuti e seguiti nella loro piccola storia. Senza dimenticare che la prima forma di comunicazione di un’azienda è il suo comportamento». Ernesto Gismondi, fondatore e presidente di Artemide, è convinto che se un’azienda entra in crisi vuol dire che qualcosa non ha funzionato. «Bisogna attrezzarsi per riuscire a capire in tempo i cambiamenti esterni. Oggi ci sono trasformazioni epocali che possono provocare la chiusura delle aziende. Ne è un esempio l’allargamento dei mercati all’Estremo Oriente. Il segreto per raggiungere una reputazione “partecipata” sta, quindi, nel saperla costruire pagina per pagina, libro per libro, sviluppando al meglio il capitale umano». Secondo Luigi Nisoli, partner Deloitte, per un’azienda dei servizi la reputazione gioca un ruolo strategico. «L’esperienza insegna che può avere effetti sulla sua profittabilità. Basti pensare che, in alcuni casi, un danno alla reputazione ha portato al depauperamento dell’azienda. Questo perché a fronte di pochi significativi eventi può essere compromessa in un tempo relativamente breve. Emblematico è il caso della Andersen & Consulting, coinvolta nello scandalo Enron». Ecco perché Deloitte ha pensato di dare vita al suo interno a una struttura che, full-time e con risorse dedicate, si occupa di reputation risk management, che riporta direttamente al consiglio di amministrazione. Un processo, quello del ripristino di reputazione, in cui il mondo della comunicazione può e deve svolgere un ruolo di stimolo e guida. «Reputazione e comunicazione s’intersecano in modo bizzarro - ha sostenuto Francesco Emiliani, direttore creativo esecutivo dell’agenzia Grey -. Tuttavia la reputazione deve essere sì fonte di sorpresa, ma deve essere viva, ossia capace di valorizzare i propri talenti». Sulla stessa linea Giuseppe Cogliolo, amministratore delegato di McCann Erickson. Che ha ribadito: «La reputazione non può essere solo una questione di comunicazione. Il punto è come si fa a non mettere in relazione i comportamenti virtuosi con la capacità di essere consistenti nel tempo?». Insomma, siamo di fronte a uno “strategic intangible asset” da cui è impossibile prescindere. Non solo, se alla recessione si aggiungono i social network, le class actions, e la legge 231 le aziende sono sempre più “case di vetro”. «Pertanto abbiamo ragioni in più per consigliare alle imprese di ripristinare la propria reputazione», ha concluso Lagioni.
MILA NO
Imprese, non perdete la reputazione
È un asset prezioso da creare e custodire con cura. Ridefinire la corporate identity e riacquistare la fiducia dei propri interlocutori è la nuova sfida delle aziende