COSA È CAMBIATO nella scuola in questi 150 anni dall’Unità? Da un lato, si potrebbe dire, tutto, ma per certi aspetti anche poco. Alla nascita dello Stato unitario, nel 1861, il tasso di analfabetismo era quasi dell’80% (in alcuni paesi meno del 20%). Oggi, la scuola ha contribuito a creare un paese unito in cui la stragrande maggioranza della popolazione parla l’italiano e non solo il dialetto, e in cui l’evasione scolastica è a livelli minimi. Non così, purtroppo, per la dispersione e l’abbandono della scuola, in particolare per i ragazzi dopo la licenza media. Un ragazzo su cinque abbandona lo studio, quasi duecentomila studenti si perdono ogni anno, il doppio del limite massimo stabilito come traguardo dai paesi europei.
Le riforme della scuola, in particolare quella della “scuola media unica” hanno accompagnato la crescita del Paese, il boom economico, l’ingresso in Europa. In questo senso, la scuola ha guardato avanti, costruendo un futuro per le giovani generazioni e creando una mobilità sociale prima irrilevante. Contemporaneamente, sono state molte le “restaurazioni”, quasi che ad una domanda di futuro e di rinnovamento si rispondesse con la nostalgia del passato. Negli ultimi anni, le “novità” consistono soprattutto nei ritorni: al voto in condotta, agli esami di riparazione, ai voti in numeri. Anche la principale spinta innovativa dagli anni ‘90 in poi, cioè l’idea guida dell’autonomia delle istituzioni scolastiche si trasforma spesso in un “fai da te” a causa della diminuzione degli investimenti e l’aumento dei tagli all’istruzione. Ancora, la scuola guarda avanti con i lenti progressi nelle indagini Programme for international student assessment (Pisa) ma anche indietro, con l’aumento del divario Nord-Sud. La formazione iniziale dei docenti è giunta finalmente a sistema; tuttavia, insegnanti sempre più anziani, non adeguatamente valorizzati e spesso capro espiatorio della crisi sociale, attendono nuove forme di reclutamento, una soluzione al problema del precariato e di veder garantita la formazione in servizio.
In un mondo-tutto-media, in una società iper-individualistica fondata sulla libertà e autonomia, sarebbe mistificante attribuire il disagio della scuola alla pedagogia dell’ascolto e del dialogo, cui nessuno rinuncerebbe, e anacronistico tornare al puro ripristino delle “regole” imposte dall’esterno. La scuola che doveva “fare gli italiani” deve ora “fare” i cittadini del mondo, comprese le seconde generazioni dell’immigrazione, non più “emergenza” ma risorsa. Il problema della scuola, oggi come ieri, rimane principalmente la giustizia in educazione, non solo una formale “uguaglianza di opportunità” ma la rimozione degli ostacoli che impediscono l’uguaglianza.