Alla fine di novembre 2010 ebbi il privilegio e il piacere di ricevere con Cesare Scurati il premio Raffaele Laporta che la Commissione scientifica appositamente costituita volle assegnarci per gli studi da noi compiuti in alcuni settori della ricerca pedagogica – nel campo della didattica lui, in quello della storia dell’educazione io – e, per la circostanza, andammo a Pescara, sede del premio, trascorrendo due bellissimi giorni insieme con altri amici e colleghi. Durante le diverse ore di viaggio in treno avemmo modo di ripercorrere gli anni trascorsi, come due vecchi compagni di scuola che si ritrovano e si raccontano le loro esperienze, anche se nel nostro caso si trattava di esperienze molto vicine e, per lunghi tratti, addirittura le stesse.
In quel momento Cesare veniva da una brutta prostrazione in cui era caduto dopo la malattia e la morte della carissima moglie Rita; ma sembrava stesse ristabilendosi. Questa impressione doveva ricevere nuove conferme nei mesi seguenti. Cesare, dopo un lungo periodo di assenza da ogni impegno pubblico, era tornato in Università, così come aveva ripreso a partecipare alle sedute del Comitato editoriale dell’Editrice La Scuola, facendosi nuovamente promotore di idee e proposte. Colleghi e amici pensavano che si aprisse ormai per lui la prospettiva di una lenta ma progressiva guarigione. Don Norberto Galli, direttore della rivista "Pedagogia e vita” oltre che nostro comune amico e antico collega, gli aveva di recente chiesto per la nuova serie del periodico un articolo e Cesare non si era fatto pregare: lo aveva scritto di getto, come gli capitava di redigere le cose che gli stavano a cuore, con grande soddisfazione di don Galli che mi telefonava di aver molto apprezzato quel contributo, dove Cesare si premurava di mettere a fuoco l’idea, a lui cara, di una scuola umanistica, a servizio della crescita delle nuove generazioni. Quando mi capitò d’incontrare Cesare, glielo dissi e a lui, che desiderava sempre avere una parola di conferma, quell’attestato di stima fece molto piacere.
Ma nella mattinata di giovedì 19 maggio, d’improvviso, apprendevamo che, nel corso della nottata, egli aveva cessato di vivere. La notizia ci è arrivata come un duro colpo, non solo perché nulla sapevamo dell’infarto da cui un paio di giorni prima era stato colpito, ma anche perché ci eravamo abituati all’idea che Cesare fosse prima o poi destinato a riprendere la sua normale attività. Le energie cui aveva fatto ricorso per superare la prova che per lunghi mesi aveva dovuto affrontare non avevano retto più, si erano spente. Appena la notizia ha cominciato a propagarsi, un moto di costernazione e di sconforto si è levato fra gli amici e i colleghi di Cesare, e in particolare fra i colleghi di Scholé, la comunità dei pedagogisti d’ispirazione cristiana che Cesare aveva contribuito a consolidare e di cui era uno dei principali animatori. La causa di tanta costernazione era dovuta non solo alla sorpresa di una morte repentina e imprevista, ma anche, e soprattutto, alla consapevolezza che era venuto meno un fine studioso dei problemi della scuola e della pedagogia e che il vuoto da lui lasciato era incolmabile. Ce ne siamo resi subito conto quando la morte ci ha obbligato a ripercorrere il suo itinerario.
Conseguita l’abilitazione magistrale, Cesare aveva immediatamente partecipato al concorso per entrare nei ruoli della scuola elementare, che vinse con grande facilità diventando uno dei più giovani maestri in servizio. Fu nel vivo di questa esperienza che egli prese ad amare la scuola di base, nella quale continuò a riconoscersi anche quando avrebbe raggiunto le vette della sua carriera accademica. Il talent scout di giovani educatori che era Vittorino Chizzolini, appena ebbe modo d’incontrare Cesare, ne capì subito le qualità umane e scientifiche e volle coinvolgerlo nelle iniziative formative de La Scuola Editrice, invitandolo agli incontri di Montevelo, che riunivano i migliori allievi delle scuole magistrali e neodiplomati, e sollecitandolo a prendere parte agli incontri di Pietralba, aperti ai maestri impegnati nella sperimentazione pedagogico-didattica. Cesare poté così entrare in contatto con alcune figure di studiosi e uomini di scuola come Marco Agosti – uno studioso dei problemi della didattica, che Cesare apprezzava moltissimo - Angelo Colombo, Gaetano Santomauro, Mauro Laeng, Lino Monchieri, e stringere rapporti con molti giovani colleghi suoi coetanei, come Primo Poli, Elio Damiano, Felice Rizzi. Insieme con questo manipolo scelto di studiosi e uomini di scuola, che nel vivo della ripresa della vita democratica del Paese stavano lavorando a un progetto per il rinnovamento della scuola e in special modo della scuola elementare, Cesare poté mettere a punto la sua vocazione professionale.
Egli si era, intanto, iscritto all’Università Cattolica per conseguire quello che allora era chiamato il diploma in vigilanza. In possesso del nuovo titolo e vinto il concorso per la dirigenza scolastica, dall’attività di maestro passava quindi a quella di direttore didattico, una professione da cui fu subito affascinato, rendendosi conto di quanto importante fosse il ruolo del responsabile della comunità scolastica impiantata sul territorio. La competenza che egli venne maturando in questo campo gli consentì di seguire con singolare attenzione i processi che, negli anni successivi, avrebbero segnato la figura del dirigente scolastico sotto la spinta delle innovazioni introdotte dai sistemi dell’organizzazione. Cesare si rendeva conto che anche questa figura avrebbe dovuto in qualche modo aprirsi al profilo del manager, ma non a scapito dell’ideale etico-professionale e pedagogico che l’aveva a lungo contraddistinta e ne rappresentava, a suo modo di vedere, l’elemento costitutivo. Nel frattempo egli proseguiva gli studi universitari e si laureava in pedagogia. I suoi interessi si volgevano verso le problematiche del pensiero pedagogico anglo-americano, per il quale avrebbe continuato a nutrire grande attenzione. L’impianto e le ispirazioni fondamentali del suo lavoro scientifico sarebbero, però, rimaste fondamentalmente ancorati alla visione filosofica e pedagogica di orientamento personalista, forte della lunga tradizione classico-moderna che essa aveva alle spalle e, al tempo stesso, arricchita dalle importanti integrazioni che veniva acquisendo in un serrato confronto con le nuove scienze umane, dalla sociologia alla psicologia.
Fu in quegli anni che conobbi Cesare, quando ambedue decidemmo di avviarci alla carriera accademica. Nel 1961 giungeva in Cattolica come ordinario di Pedagogia Aldo Agazzi e da allora Cesare ed io, quali assistenti volontari, cominciammo a partecipare alle attività del dipartimento di Pedagogia e in particolare al “seminario del mercoledì” che, nelle intenzioni di Agazzi, sarebbe dovuto servire a reperire, formare e incrementare le vocazioni di studiosi in pedagogia. All’inizio, i nostri rapporti non andarono molto al di là della semplice colleganza, non solo perché, avendo preso a studiare la figura del filosofo e pedagogista francese Lucien Laberthonnìère, ero spesso a Parigi, ma anche perché, in quel momento, i nostri itinerari di studio mi sembravano procedere lungo binari separati: quello di Cesare impegnato nello studio della pedagogia della scuola, delle problematiche e delle tecnologie didattiche, dell’innovazione nei processi formativi; il mio ormai sempre più caratterizzato nell’approfondimento della storia del pensiero pedagogico e delle istituzioni scolastiche ed educative dell’Italia Unita. Ma era un’impressione falsa, che col tempo avrei dovuto correggere, intanto perché Cesare, sempre attento alla dimensione storica e teoretica della pedagogia, studiava anche le proposte pedagogiche di alcuni grandi pensatori, come Locke, Pestalozzi, Mounier, così come non trascurava di confrontarsi con le provocazioni culturali che si affacciavano al dibattito pedagogico, come ad esempio le suggestioni dello strutturalismo; e poi perché, le sue riflessioni sull’impegno educativo della scuola mi sarebbero state di grande utilità per affrontare alcune questioni pedagogiche e istituzionali come la questione dell’insegnamento religioso a scuola o quella dei valori che una scuola pubblica di Stato avrebbe potuto e dovuto concorrere ad alimentare. Quante volte mi sarei soffermato a rileggere e a meditare quello che egli scriveva in tema di scuola.
I nostri studi furono premiati e fra gli ultimi anni ’70 e i primi anni ’80 giungemmo ambedue alla cattedra universitaria. Nel 1981, dopo essere passato negli atenei di Genova e Parma, Cesare giungeva in Cattolica, dove io, più fortunato, ero riuscito ad approdare qualche anno prima. Da allora i nostri rapporti si fecero più intensi e le riserve che, a torto, avevo nutrito per qualche suo atteggiamento, che inizialmente mi era apparso quasi indulgere verso forme di un certo disimpegno ideologico, dovevano cedere il posto a un vivo e profondo apprezzamento per quelle che scoprivo essere, in realtà, le sue virtù di fondo: la mitezza, l’attenzione per le idee altrui, la preoccupazione d’affrontare con razionalità i problemi e di fornire ad essi soluzioni plausibili. Sul piano accademico, la mitezza di carattere non gli è stata sempre di vantaggio. Ricordo alcuni torti che anche all’interno della stessa editrice La Scuola, dove pure è sempre stato apprezzato e amato, egli dovette subire, come quando, nella scelta della direzione di alcune riviste didattico-professionali, si vide preferire colleghi che di didattica della scuola non si erano mai occupati. Ma l’allora consigliere delegato de La Scuola ing. Adolfo Lombardi volle gli fossero attribuiti, quasi a risarcimento, altri significativi incarichi come la direzione di altre riviste quali “Scuola materna” o “Dirigenti scuola”. Così come il suo temperamento remissivo non l’ha, certamente, aiutato a fronteggiare le difficoltà accademiche creategli da alcuni colleghi dello stesso gruppo disciplinare. È stato in queste circostanze che mi sono sentito sempre più stringere a lui da sentimenti di stima e di amicizia.
Cesare ha però anche goduto di tante gratificazioni. Tra i vari incarichi ricoperti in Università Cattolica, merita ricordare la direzione del dipartimento di Pedagogia e la direzione del Centro di ricerca per l’educazione permanente e a distanza. Ma non possiamo dimenticare il credito di cui godeva nel mondo dell’associazionismo magistrale, in particolare dell’Associazione italiana dei maestri cattolici (Aimc), che egli ha sempre considerato una seconda famiglia e alla quale ha recato il contributo delle sue preziose riflessioni. Ricordo in particolare l’affetto che lo legava a Carlo Buzzi, per lunghi anni presidente dell’Associazione, e a don Giulio Cirignano, che dell’Associazione è stato e continua ad essere l’assistente ecclesiastico. Non è casuale che, appresa la notizia della sua morte, gli attuali responsabili dell’Aimc abbiano voluto testimoniare, con un comunicato, il contributo di idee e proposte ricevute da Cesare: «La sua presenza ai nostri convegni – essi hanno scritto – era garanzia di qualità». A conferma del prestigio che gli veniva riconosciuto nel mondo associativo della scuola e dell’università, giova altresì rammentare la sua nomina a presidente della Società pedagogica italiana. Per le sue riconosciute competenze pedagogiche e didattiche Cesare è stato più volte chiamato a collaborare con il Ministero della Pubblica istruzione. Negli anni 1981-1985 egli ha fatto parte della Commissione ministeriale per la revisione dei programmi per la scuola elementare e, avendo anch’io partecipato alla stessa Commissione, posso testimoniare l’alta reputazione in cui era tenuto da tutti coloro che vi hanno lavorato, a qualsiasi orientamento appartenessero: gli interventi di Cesare erano sempre ascoltati con grande attenzione e, il più delle volte, le sue proposte erano ampiamente condivise e sottoscritte. Tra il 1988 e il 1991 egli ha inoltre coordinato i lavori della Commissione Ministeriale degli Orientamenti per la scuola materna.
Ma, in conclusione di questo ricordo, vorrei richiamare altri due tratti che mi sembrano aver caratterizzato il profilo di Cesare. Per la curiosità intellettuale, oltre che per lo spirito di ricerca via via affinato, egli era portato a stabilire rapporti con molti colleghi di altre discipline, nella persuasione che le valenze pedagogiche fossero presenti non solo nelle strutture educative formali come la scuola, ma anche in altre dimensioni quali la letteratura, il cinema, la musica. Non c’è quindi da meravigliarsi che egli tendesse a coinvolgere nei suoi progetti educativi anche docenti di altri settori e che egli godesse di grande apprezzamento anche in campi diversi dalla pedagogia. Ma vorrei soprattutto ricordare la dedizione con cui seguiva gli allievi, partecipando con grande sensibilità umana e professionale ai loro itinerari di studio, e al tempo stesso lasciandoli liberi di correre ciascuno la propria avventura intellettuale.