L'avanzata del populismoCongiuntura complicata per l’Europa: la crisi scoppiata simbolicamente il 15 settembre 2008, data del malaugurato fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, è rapidamente uscita dai suoi contorni originali. Da frutto avvelenato di una finanza globale spregiudicata e priva di controlli, è rapidamente passata a investire le economie reali più deboli del continente. Questo impatto asimmetrico, a sua volta, ha messo a nudo i difetti dell’architettura istituzionale e politica costruita intorno all’adozione della moneta unica. Per semplificare: una stessa moneta per sistemi economici con gradi assai diversi di competitività internazionale e con finanze pubbliche altrettanto varie in termini di efficienza, solidità, esposizione agli attacchi speculativi.

Per l’Unione Europea è arrivato il tempo della disillusione. La tragedia umana, sociale ed economica della Grecia ha messo in scena sia la debolezza dei meccanismi di controllo che potevano scongiurare per tempo il precipizio ellenico, sia la distanza che ancora ci separa da una struttura davvero federale, che si richiami al modello degli Usa. Complice anche la crisi economica, la politica europea è rifluita tutta entro gli angusti argini delle trattative intergovernative: Stati ricchi e virtuosi contro Stati poveri e indebitati. L’Europa dei banchieri contro quella dei disoccupati, con inevitabili richiami ai panciuti finanzieri teutonici e ai relativi sigari d’ordinanza, disegnati dal tratto corrosivo di George Grosz giusto un secolo fa.

Il processo di costruzione europea ha subito dunque un brusco arresto sul piano del processo di integrazione istituzionale (più Stato europeo e meno Stati membri), ma soprattutto sul piano della costruzione della nazione europea, una costruzione che consiste – in ultima analisi – nel trasformare l’Europa in un simbolo positivo, in un valore condiviso. Al contrario, l’Europa, e in particolare l’euro, sono diventati per ampi settori dell’opinione pubblica simboli negativi, disvalori, mondi da cui fuggire per garantirsi un futuro migliore.

Questo esito era inevitabile: le istituzioni non sono mai neutre rispetto agli orientamenti di valore e alla definizione delle identità. Istituzioni che funzionano, che garantiscono cioè diritti e opportunità, costruiscono la loro legittimità trasformandosi in valori in cui i cittadini si identificano. È una storia antica: così si costruiscono le nazioni; così, oggi, si garantisce la qualità della democrazia. L’Europa per molti anni è riuscita a proporsi come valore positivo, e dunque ad alimentare un’identità europea. Negli ultimi anni è diventata invece, agli occhi di larghe porzioni di opinione pubblica continentale, sinonimo di rigore insensato, di ottusa burocrazia, di indebita sottrazione di sovranità. In altri termini ha perso di legittimità e si è trasformata in una minaccia per il futuro dei suoi cittadini.

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Tutto normale, da un certo punto di vista. È passato quasi mezzo secolo da quando Albert Hirschman mise in evidenza che, per reagire all’insoddisfazione e alla delusione, per il consumatore o per l’elettore si aprono due strade, l’exit o la voice: uscire dal gioco (magari cercando un altro fornitore) oppure protestare, alzando la voce. Quanti italiani eserciteranno l’exit, restando a casa nella convinzione che la propria opinione sia del tutto irrilevante e lasciando ad altri la responsabilità e il privilegio di scegliere?

L’equivoca nozione di “casta” si può facilmente applicare all’Europa e al suo governo, alimentando quello che gli scienziati della politica definiscono “senso di inefficacia politica”. Ed è a questi italiani distratti, delusi o rassegnati, propensi a ignorare le elezioni europee, che si rivolgono tutti coloro che sventolano le bandiere della voice. Queste forze politiche proclamano appunto di difendere il cittadino e la cittadina qualunque, tartassati dalla burocrazia e dalle tasse o disoccupati a causa della crisi. Prospettano come soluzione l’uscita dall’euro e il ritorno alla cara vecchia lira, svalutabile all’occorrenza: una voice brandita agitando la promessa di un exit, di un rimettere indietro l’orologio.

Ma oggi il mondo non è più quello della liretta svalutabile in caso di perdita di competitività. È del tutto illusorio pensare di poter tornare indietro, come se niente fosse accaduto. Un’intera fase storica si è dipanata da Maastricht in poi (una fase, è bene tenerlo a mente, che ha consentito all’Italia di superare varie crisi finanziarie globali, nonostante il peso del debito pubblico e la ridotta competitività). Certo le istituzioni europee devono ricominciare a costruire integrazione, a lavorare per l’edificazione di un’identità europea fondata sui diritti e sulla salvaguardia della qualità della vita di tutti gli europei, promuovendo politiche di inclusione e promozione dell’uguaglianza.

Detto questo, gli italiani hanno però ancora una lunga lista di compiti a casa da fare, al di là dei famigerati vincoli di bilancio. Per stilare un elenco minimo: costruire un’amministrazione trasparente, efficiente ed efficace; riformare un sistema giudiziario in linea con i Paesi civili in termini di lunghezza dei processi, di certezza della pena e di condizioni dignitose per coloro che queste pene si trovano a scontare; garantire l’eguaglianza dei cittadini anche in termini di equità fi scale, in modo da ripartire i costi dei diritti di cittadinanza in base alle differenti capacità di contribuire al bene comune. Ma la riforma più importante è quella che riguarda l’etica pubblica, ovvero il senso di responsabilità dei cittadini verso le istituzioni, a partire dalla scarsa sensibilità verso la corruzione, su cui si transige come se fosse un male incurabile: “è sempre stato così”.

Il problema non è facile, perché non può essere risolto da una norma di legge. Queste, sul tema, non mancano, ma hanno lo stesso destino delle gride manzoniane: una tira l’altra e tutte risultano inefficaci. Il senso di responsabilità civica è più complesso da formare: è decisiva la concreta azione della politica, ben più che le norme anticorruzione! Le istituzioni fanno scuola, si è detto sopra, ma questa pedagogia implicita deve avere l’opportunità di svilupparsi nel tempo in modo coerente. Non sarà certo l’uscita dall’Europa a renderci le cose più facili se non risolviamo questi problemi che ci accompagnano dall’Unità. La convinzione di chi scrive è che ci sia bisogno di più Europa e che occorra lavorare perché questo avvenga. Nel marzo 2014 il presidente russo Putin ha mosso aerei, navi e carri armati a poco più di 300 chilometri dai confini dell’Unione Europea – tanto dista Sebastopoli dalla Romania. Inconsapevolmente, ha introdotto un argomento persuasivo per aiutarci a ritrovare le ragioni per un’Europa unita.

* Roberto Cartocci insegna Metodi della scienza politica e Teoria dello sviluppo politico all’Università di Bologna. Tra i suoi lavori recenti, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia (2007), e Mappe dell’Italia cattolica (2011).